Viviamo in un periodo fortunato. Uno di quelli per cui, tra qualche decina di anni, qualcuno potrebbe persino dire: “Vorrei avere vissuto quei momenti”. Momenti in cui si annunciava la scoperta del bosone di Higgs, la “particella di Dio”, in cui si catturavano le onde gravitazionali, e tutto questo regalava un nuova visione dell’universo. «Viviamo,» come dice il fisico Guido Tonelli, professore presso l’Università di Pisa e uno dei responsabili, insieme a Fabiola Gianotti, dell’esperimento del Cern, «in un universo fortunato. Un universo sostenuto da un’impalcatura fragilissima, una sorta di ragnatela, da cui tutto ha avuto inizio grazie a una rottura di simmetria, un’imperfezione. Una simmetria perfetta di questa “impalcatura” infatti, avrebbe significato mancanza di vita e noi, come altri universi possibili, semplicemente non saremmo qui e ora. Dovremmo riflettere su questo perché, in un certo senso, la nostra esistenza, la nostra visione del mondo, dipende da un’iniziale, e permanente, precarietà. Permanente poiché sappiamo che questa stessa impalcatura non è eterna, né stabile, e, anche se ancora alcuni miliardi di anni dovrebbe reggere, da qualche parte potrebbe essersi già lacerato qualcosa…». Tinelli sarà uno degli ospiti del prossimo Salone del Libro di Torino (12-16 maggio), un’edizione consacrata alla “visionarietà” e in cui la scienza avrà un ruolo importante.
Del resto, la fisica contemporanea appare oggi come una rivoluzionaria avventura, cosa che in parte giustifica i successi di libri come Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli (Adelphi), o dello stesso Tonelli, autore de La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli): «Mi piace pensare che non si tratta solo delle scoperte e della conseguente attenzione mediatica. Penso invece a un ritorno alle grandi domande della Vita e dell’Universo, le stesse che si pone la fisica contemporanea, e alla necessità, in tutta questa caducità di emozioni e notizie, di qualcosa di più profondo e immanente» continua Tonelli. Essere visionari, dunque, al di là della capacità di essere lungimiranti e innovativi, di lanciare l’immaginazione oltre l’ostacolo della quotidianità, significherebbe rivolgere lo sguardo, più che al lontano, a noi stessi. O meglio, all’eterno ritorno della nostra cultura e delle nostre radici. Secondo Marco Malvaldi per esempio, chimico e scrittore, nulla è più “visionario” di letteratura e poesia. Nel suo L’infinito tra parentesi (Rizzoli), apre ogni capitolo con un brano tratto da un’opera da Lucrezio a Omero, da Rudyard Kipling a Jorges Luis Borges, e ci trascina in quell’ironica sovrapposizione di eventi che è la versione tragicomica di vite che poi rimarranno sui libri di storia, e che porta all’avverarsi, scientifico, di intuizioni poetiche. «Poesia e scienza sono entrambe astrazioni del nostro cervello, le nostre stesse parole non sono che un’operazione matematica raffinatissima. E come la poesia si presenta nella forma compatta dei versi, anche le equazioni della fisica condensano in singole formule una quantità generosa di informazioni. Si tratta di due linguaggi simbolici, naturale e matematico, che insieme ci aiutano a capire il mondo, ed è per questo che è autolesionistico fare volontariamente a meno di una parte della nostra cultura: Paolo Dario, il padre della robotica italiana (direttore dell’Istituto di biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e del Polo Sant’Anna Valdera, ndr), cita a memoria versi dell’Odissea e ama raccontare che l’idea di un robot governato da un software era già presente nel Golem della tradizione ebraica», dice Malvaldi.
Che d’altra parte ricorda che è all’umana capacità di astrazione, la capacità di ragionare su cose che non esistono, che si deve la possibilità di vedere le potenzialità in un oggetto o in un’idea apparentemente inutili o inverosimili. Inutili come era la macchina analitica di Ada Lovelace (il futuro pc), e inverosimili come proporre di costruire un tracciatore che sopravviverà alla radiazione di LHC e che permetterà di ricostruire segnali di elettroni e muoni con una tale precisione da riuscire a identificare il bosone di Higgs. Perché i visionari a volte si riconoscono solo a posteriori e perché è difficile intravedere, parafrasando Leibniz, un presente già gravido di avvenire. Eppure il segreto sta tutto qui. Nonostante i muscoli mostrati dalla tecnologia, la minaccia digitale, la velocità dei cambiamenti a cui non si riesce a stare dietro. Il segreto sta tutto nel decifrare i fiumi carsici della realtà, nel capire che per essere visionari bisogna innanzi tutto essere consapevoli di ciò che accade intorno a noi.
«Siamo in mezzo a uno tsunami sociale, culturale ed economico, e spesso non riusciamo a cogliere le evoluzioni, a gestire la transizione tra la cultura “analogica” e quella digitale, che pure ha già determinato nuovi comportamenti. Affrontare il tema della cultura digitale vuol dire allora mettere i piedi nella realtà contemporanea, prendere atto di questa transizione. Serve ad avere meno paura, a essere più propensi all’innovazione, ma soprattutto serve a capire che non dobbiamo tanto porre l’attenzione sull’enfasi tecnologica, quanto dedicarci alla comprensione dei processi culturali e sociali in atto. La vera sfida per prepararsi al futuro è culturale». Parole di Maria Grazia Mattei, esperta di nuove tecnologie della comunicazione e dal 2005 direttrice di Meet the Media Guru, un ciclo di incontri con il gotha della cultura digitale. Da lì sono passati da Mimi Itō, antropologa dell’Università della California, a John Lasseter, direttore creativo della Pixar e dei Walt Disney Studios, che ha raccontato come alla base di innovazioni tecnologiche come il 3D c’è sempre una sensibilità artigianale. «Se dovessi trovare una caratteristica comune agli ospiti, la rintraccerei nella loro capacità di ribaltare il punto di vista, di togliersi il fumo dagli occhi e vedere le cose in modo diverso rispetto al racconto mainstream», conclude Mattei.
Il tempo della meraviglia tecnologica che bastava a se stessa è dunque finito. Persino Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto italiano di Tecnologia (IIT), presente al Salone del Libro con il suo grande robot androide iCub, ammette che la tecnologia, le scoperte, di per sé non garantiscono un (buon) futuro. Né ci danno la patente di visionari. «Come esseri umani siamo deboli nei loro confronti. È come se vivessimo in un posto di luce abbagliante, sopraffatti dalle potenzialità tecnologiche, ma l’homo sapiens sarà davvero homo technologicus, solo se di questa tecnologia avrà il senso, se imparerà a esserne responsabile». La soluzione, ancora, si chiama etica, cultura, educazione. Anche per questo, a parlare di visionarietà a Torino ci sarà anche Marino Golinelli, imprenditore ottantenne che a ottobre ha inaugurato a Bologna l’Opificio, una cittadella per la conoscenza e la cultura, dove si concentrano le attività formative, educative e culturali riservati ai ragazzi e agli insegnanti delle scuole della sua Fondazione. «Ho sempre pensato che bisogna essere responsabili dei nostri figli e della società in cui si vive. Restituire a essa parte della fortuna ricevuta e creata, è sempre stato il mio valore guida. Il mio desiderio è educare ad educare, insegnare ai giovani come prendere in mano il proprio futuro. È a scuola che si impara a lavorare per costruire un mondo collaborativo, integrato, etico e sostenibile» dice Golinelli. Uno che le visioni le ha trasformate in prassi, atti concreti, nulla di più lontano dalle chimere strampalate affibbiate ai visionari da fiction. Come le opere di Jennifer Siegal, l’architetto fresca vincitrice dell’arcVision Prize – Women and Architecture. Invece di rincorrere costruzioni mirabolanti ed esibizionistiche, si è distinta per la progettazione di case e scuole prefabbricate. Li chiama dispositivi mobili (OMD, Office of Mobile Design) e sono pensate per persone e zone disagiate, smontabili e riposizionabili, per spazi transitori che devono accogliere dovunque la dignità dell’essere umano. Quelli che non sono capaci di andare al di là di quello che vedono con i propri occhi, le chiamano roulotte.
Articolo pubblicato sul numero di Dove, maggio 2016