Quello che segue è un articolo dal titolo Junkspace pubblicato ben venti anni fa, precisamente nel numero di febbraio 2001 del mensile Gulliver. Mi è capitato sotto gli occhi facendo pulizia sul Mac e i vari dischi esterni. Non credo che oggi nessuna rivista di così detti viaggi pubblicherebbe una cosa simile. Eppure, se c’è un viaggio che abbiamo fatto, è quello indicato in queste righe. Non mete, ma emozioni, desideri, persino paure. Oggi si parla tanto di storytelling, dell’egemonia delle storie, e io mi chiedo se ci vuole solo un po’ più coraggio.
Dopo il cibo, anche lo spazio. Tossico, manipolato, alterato. E, come si conviene, consumato in fretta. Tra un aeroporto e un altro, tra i labirinti umidi della metropolitana e quelli affollati di un centro commerciale, tra il caos asfissiante di una tangenziale e il silenzio profumato d’incenso di un tempio buddista ricavato in un garage. Sovrapposizioni casuali, che sfuggono a ogni regolamentazione urbanistica, e che pure costituiscono l’anima, il senso, e le contraddizioni di una città contemporanea. L’olandese Rem Koolhaas, uno dei maestri dell’architettura contemporanea, ha chiamato questa sorta di territorio transgenico, junkspace. «Junkspace è la somma di tutta l’architettura attuale», scrive nel suo omonimo saggio. «È il prodotto dell’aria condizionata e delle scale mobili; è come un enorme Jacuzzi perennemente in funzione, in cui si è condannati a stare insieme a milioni di nostri migliori amici». Uno spazio artefatto e ipermediatico, dunque, ma pur sempre il riflesso dei rapporti sociali e culturali di chi lo vive. Uno spazio di cui, proprio come succede per il cibo stile McDonald’s, non si riesce, nonostante tutto, a fare a meno. «Junkspace» continua Koolhaas, «è il territorio delle nostre ambizioni frustrate, delle aspettative deluse, della coscienza dimenticata: è il triangolo delle Bermuda dei nostri valori». Qui si perde ogni difesa, tutte le distinzioni vengono cancellate, le certezze minate, scalzate. Ma non è finita. Perché «il junkspace nasconde la somma delle decisioni che non abbiamo mai avuto il coraggio di prendere».
È così che lo sviluppo incontrollato della metropoli ha avuto il sopravvento. Che Shenzen, boom town cinese con decine di torri costruite negli ultimi otto anni, passerà in un ventennio da dodici a 36 milioni di abitanti. È così che, ancora in Cina, nel delta del Pearl River, ogni anno si urbanizzano fino a 500 chilometri quadrati di territorio. Scenari apocalittici e ansiogeni che inducono a chiedersi quale geografia, quale architettura e quale umanità abiteranno le città nel ventunesimo secolo. Ma non necessariamente il junkspace sarà, come sostiene Koolhaas, la nostra tomba. Si può forse scoprire ancora, in questo caos degenerativo, in questa mutazione casuale, una bellezza nuova. Una poesia disincantata che investe periferie dimenticate, quartieri abbandonati, e poi risvegliati da etnie a noi sconosciute, architetture meticce in cui convivono segni di culture lontane. Viste dall’alto, le palazzine stile brutalista degli anni Settanta in un quartiere parigino del XXIII arrondissement sembrano galleggiare su un letto di pagode, mentre nel sottosuolo i parcheggi e i vecchi magazzini una volta utilizzati dalla ferrovia per raccogliere pietre, fanno posto a una città parallela di templi taoisti e buddisti, stazioni, depositi, e mercati asiatici. «Anche per le metropoli europee vale una regola: quella per la quale tutti gli strumenti della geografia e dell’urbanistica classiche sono ormai inutili», dice l’architetto Stefano Boeri, curatore insieme a Koolhaas, della mostra Mutations, che si svolgerà fino al 25 marzo 2001 al Centre d’Architecture Arc en Rêve. Come spiegare, infatti, secondo gli schemi tradizionali, città doppie come Mazara del Vallo dove nel dedalo di strade del Trecento popolate da vecchi pescatori, una moschea tunisina fa rivivere i segni di un passato arabo? Come spiegare i fenomeni di Elche, alla periferia di Valencia, nelle cui case convivono placidamente nuclei familiari e rumorosi macchinari utilizzati dall’industria tessile? O infine di Helsinki, autoclonatasi in una città gemella e ipertecnologica?
«Per cogliere questi processi istintivi, invisibili a chi osserva le città solo a grande scala, c’è bisogno di uno sguardo nuovo privo di pregiudizi», continua Boeri. Forse quello di Francesco Jodice che nella mostra prevista all’interno di Mutations fotografa le trasformazioni di venti città europee. Territori frammentati, ricchi di incroci di culture, di sovrapposizioni di forme architettoniche diverse, ma soprattutto di angoli di mondo lontani chiusi l’uno dentro l’altro da aprire e scoprire, come se fossero una scatola cinese. A dimostrazione che solo se si è guidati da una generosa e aperta curiosità si può andare lontano pur restando quasi fermi. Proprio come faceva il Marco Polo delle Città Invisibili di Italo Calvino. Che fossero reali o meno le cupole d’argento dei teatri di cristallo di Diomira, le strade lastricate di stagno di Zerude, o gli aquiloni di Anastasia, poco importa. Così come è irrilevante che i luoghi creati dal trio di artisti ebrei moscoviti Tatyana Arzamasova, Lev Evtzovitch, Evgeny Svyatsky, alias AES Group, siano solo elaborazioni digitali. Città fantastiche, eppure più reali di qualsiasi entità geografica. Luoghi – immagini che spiazzano, che minano le nostre certezze sovvertendo il nord e il sud geografico e culturale. Una cupola di una moschea sovrasta la spirale bianca della Guggenheim Museum di New York, la macchina architettonica del parigino Beaubobourg si mescola alle rovine di una ksar, la tipica città fortificata del deserto. La romana piazza San Pietro e il Reichstag di Berlino circondati dalle tende di un mercato arabo, la Statua della Libertà che, coperta dal burqa, il velo imposto alle donne afghane, stringe nella mano, non la Dichiarazione di Indipendenza, bensì il Corano. Icone occidentali contaminate da elementi della cultura musulmana: è la paranoia dell’invasione dell’altro che si materializza.
È lo spazio che diventa reale, non tatto per tanto perché le sue architetture esistono, ma perché è intriso di memoria, desiderio, e sofferenza. Come quel junkspace di Koolhaas che, per citare ancora le parole del saggio scritto dall’architetto olandese, «Esiste e vibra perché conosce le nostre emozioni: un Grande Fratello che vive nella nostra stessa pancia». Comprenderlo, scoprirlo, sopravvivere in esso, significa compiere un viaggio mentale verso il nostro futuro. Non a caso in moscoviti di AES Group hanno fondato una simbolica Travel Agency of the Future. Per cominciare, con meraviglia, l’avventura verso territori e forme del mondo ancora sconosciuti, e che si rivelano in dettagli che abitualmente passano inosservati. Camminando per le strade di Tokyo, Francesco Jodice si è soffermato su un adesivo celebrativo di un’azienda. Ecco un mare di persone, strette le une contro le altre, che hanno la stessa densità e geometria della metropoli giapponese ripresa dall’alto. Nessuna possibilità di vuoto, nessuna possibilità di contenere quella folla. Solo spazio occupato, riempito, saturato, e un’inevitabile identificazione tra quest’ultimo e l’umanità che lo abita. Così architettura e desiderio diventano una cosa sola. Un magnetico binomio con cui si dovrà in futuro fare i conti. Resta forse questo allora l’ultimo vero viaggio possibile, l’ultima bellezza da scoprire nel junkspace. Meglio se consapevoli delle profetiche parole del Marco Polo di Italo Calvino: «L’altrove è uno specchio in negativo, il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il mondo che non ha avuto e non avrà».