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Valpelline, il lusso che viene dal nulla

L’ennesimo anno con poca neve e un caldo anomalo sulle vette. I gestori degli impianti cominciano a chiedere sussidi e aiuti di fronte a un’economia appare sempre di più non sostenibile. Eppure, esiste una strada per la montagna al di fuori della monocultura dello sci. Alcuni questa strada stanno cominciando a tracciarla, come Daniele Pieiller presidente dell’Associazione Culturale NaturaValp che dalla Valpelline mostra, raccogliendo premi e riconoscimenti, che un’altra montagna è possibile. Io ho fatto due chiacchiere con lui mentre preparavo un servizio sui trekking fotografici in Valle d’Aosta per il magazine Dove (lo si trova nello Speciale Viaggi 2023 in edicola fino a fine gennaio), e siccome credo che le parole piene di senso non debbano essere dette invano, le ho riportate qui. Sperando forse che la ricetta Valpelline, lontano dal farne un copia-incolla senza senso, possa almeno avviare più di qualche riflessione su una montagna che non deve sentirsi condannata dal cambiamento climatico. Anzi.

Dove nasce il successo e il riconoscimento al modello Valpelline?

Eravamo una decina di persone, tra operatori turistici, una guida alpina, un fotografo naturalista e alcuni gestori di rifugi alpini tutti della Valpelline. Era il 2012, ma non abbiamo avuto timore di pensare a un progetto di lungo respiro. All’inizio ci siamo semplicemente chiesti: quali peculiarità abbiamo noi? Certo non infrastrutture turistiche, impianti di risalita o grandi servizi ricettivi o centri, la nostra valle si distingue per i suoi numerosi ghiacciai, per una una farfalla unica nel suo genere, un habitat intatto che conta ben sei alpeggi solo nella zona di Bionaz che producono fontina a 2200 metri… Questo avevamo, poco o nulla secondo alcuni, e questo “nulla” noi abbiamo deciso di farlo diventare il nostro lusso.

Il borgo di Doues in Valpelline

Sorrido perché tecnicamente questo significa aver la capacità di trasformare una mancanza in una risorsa, di allontanare il proprio sguardo dalle categorie consuete, e di provare a immaginare qualcosa di nuovo. La richiesta sempre crescente di un turismo di qualità e in armonia con la natura, la crescente consapevolezza dell’impatto che hanno su comunità e territori il nostro “viaggiare”, per altro dovrebbero suggerisci di andare nella giusta direzione… ma spesso non accade così. Si continua a credere che il futuro siano impianti sempre più faraonici (il caso del progetto che coinvolge il vallone delle Cime Bianche è un esempio) che per altro si portano dietro polemiche e divisioni all’interno di comunità che invece dovrebbe concentrarsi sulla propria esistenza al di là e al di fuori della stagionalità dei flussi turistici.

Come avete convinto i valligiani a credere in un modello così alternativo? A convincere che tutela e sviluppo non sono in contraddizione…anzi?

Ammetto che abbiamo avuto molta fortuna all’inizio, una fortuna seguita a buoni risultati quasi immediati e che hanno dato coraggio a tanti, assicurandoli che anche la nostra fosse una strada percorribile. Nei primi due anni abbiamo fatto molto marketing, ci presentavamo a ogni evento per presentarci, ma fin dalla  prima estate ci siam trovati ad assumere una ragazza solo per rispondere a mail e telefonate di prenotazioni dirette. È evidente che se la comunità non si fosse riunita intorno a questi temi non avremmo avuto gli stessi risultati, ma è anche importante far capire che non è solo la “montagna dello sci” a dare un ritorno economico. Io stesso arrivavo da dieci anni di responsabile di piste a Cervinia, ho lavorato in Alto Adige, in Austria, nello stesso periodo d’estate avevo una vecchia casa a Bionaz che ora ho ristrutturato per farla diventare l’Espace Alpe Rebelle: due montagne diverse, entrambe possibili.

E questo ha favorito anche la fatidica destagionalizzazione?

Se si punta sulla natura incontaminata, le camminate, sull’osservazione degli animali nel loro ambiente, sul silenzio, il benessere non artificiale, le relazioni autentiche, l’uscita dalla gabbia delle stagioni è quasi automatica. Noi abbiamo puntato a distinguerci proponendo una formula di turismo in contrapposizione a quella più consumata; abbiamo puntato su un turismo di nicchia, che non vuole la quantità, ma la qualità. In questo modo la montagna vive sempre, più stranieri che italiani per ora, ma i numeri ci dicono che dal 2017 la nostra valle è in crescita.

Ci sta dicendo che la natura basta da sola?

Esatto. Di fronte a una promozione forsennata della costruzioni di grandi centri benessere dentro gli alberghi, noi abbiamo semplicemente detto che è la natura il nostro centro benessere. Non c’è bisogno di artifizi o sovrastrutture. Chi viene da noi è invitato a uscire, lontano dal paradigma dei resort che vuole il cliente chiuso dentro la struttura per spremerlo fino al midollo… Oggi è sempre più raro avere una valle così a disposizione, senza giostre o costruzioni che ne deturpano il senso, bisognerebbe accorgersene, ma ammetto che si tratta di un cambiamento soprattutto a livello culturale. Un cambiamento che richiede tenacia, tempo. Inutile cullarsi nell’illusione che lo spirito delle vecchie comunità di montanari esista ancora. Gente ribelle, che nulla avrebbe barattato per la propria libertà. Oggi quello che noi chiamiamo “montanaro” è anche lui un vinto dal consumismo, la sua “idea“ di montagna è influenzata ancora dal modello del consumismo degli anni Settanta, l’hanno fatta propria.

Concordo. Penso al film Le Otto Montagne tratto dal libro di Paolo Cognetti, che forse più che la storia di un’amicizia, è la dichiarazione dell’impossibilità di esistere del “vecchio montanaro”, dell’impossibilità di arginare quell’idea della montagna “bella ed estiva”, che pure è l’unica a sopravvivere, visto che quando il gioco si fa duro, e la montagna si palesa in tutta la sua durezza, neppure il montanaro vero sopravvive più. Eppure questo “cambiamento delle Terre Alte”  viene raccontato, in alcune zone ci si prova pure.  Certo, la retorica non manca. Bionaz per esempio era tra i comuni che più aveva sofferto dello spopolamento e ora c’è chi crede che il “turismo” possa favorire una sorta di rinascita (parola ugualmente abusata). Ma la verità è che se nei primi anni qualcosa si è mosso, poi la controtendenza l’hanno fatta soprattutto l’apertura di nuove strutture… «Per costruire una realtà economica di questo tipo ci vuole tempo e tenacia. È come mettere nuove radici ed è la cosa più difficile con i tempi che corrono. Tutti, politica compresa, tendono a correre dietro gli interessi del momento», dice Pieiller.

Il borgo di Bionaz in Valpelline

Ma con tutti i riconoscimenti che avete ricevuto, nessuno in Valle ha seguito il vostro esempio?

L’interesse c’è. Ci hanno invitato a Saint-Oyen, 189 abitanti nella Valle del Gran San Bernardo, anche località come  Valgrisenche e La Thuile si sono mostrati sensibili, e abbiamo un dialogo continuo anche con località molto importanti che cominciano ad accorgersi che alimentare la giostra di quel del tipo di turismo ha costi pazzeschi, a cominciare dalla gestione dei rifiuti. Noi siamo dopotutto l’esempio che il “turismo” si può educare, le stesse persone che a Cervinia non fanno attenzione a acqua calda e consumi, quando arrivano qua si ridimensionano… la natura è anche maestra. Il premio ricevuto da FAO e Onu ci ha dato visibilità in più, una conferma che la strada scelta è quella giusta.

In concreto cosa significa?

Partire dall’assunto che l’obiettivo non è avere sempre più gente in giro: per anni si è cercato di togliere la fatica dello stare in montagna solo per avere più arrivi, alzare i numeri. L’obiettivo è far rivivere le valli e dare la possibilità di viverci. Adesso noi partecipiamo anche a NATworking, una rete che mette insieme luoghi e persone  che vogliono vivere e lavorare in aree extraurbane. Non abbiamo paura dello “straniero”, l’importante è non folclorizzare il territorio, la montagna, non cedere al suo consumo.

Buona Montagna

Nella foto di apertura il lago della Diga Place Moulin @ValpellineAllSeason

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Manuela Mimosa Ravasio è una giornalista professionista con una formazione da architetto. Ha lavorato per anni come caporedattore scrivendo di società e attualità in riviste del gruppo RCS e tutt'ora firma per i maggiori quotidiani e settimanali nazionali. Oggi svolge la sua attività da libera professionista offrendo anche consulenze in comunicazione, progettazione di contenuti e strategie narrative, e formazione per la promozione di territori.

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