Abbandonata la campagna verde di Eyjafjarðarsveit dove ci siamo fermati per qualche giorno, ci ritroviamo tra distese arse brune e rossastre. Il sole continua a splendere, qui a est. Una luce piatta ma abbacinante che rende tutto più arido e marziano. Ci arrampichiamo sulla luna e poi scendiamo di nuovo, la terra sembra spaccarsi e da lontano vediamo fumarole bianche che si alzano verso il cielo: siamo a Hveraröndor/Hverir (ma il passaggio è chiamato anche Namaskarð), un campo geotermico ai piedi del Námafjall. Per paradosso, il fatto che l’Islanda abbia dei luoghi straordinari così facilmente accessibili, invece di renderli più familiari, accresce il senso d’inquietudine. Il fango grigio ribolle in grandi pozze, i fumi di zolfo quasi soffocano, e la distesa sterile, deserta, è di un giallo ossidato con striature rosse, brune, argento. Battiamo i piedi per sentire l’eco della Terra. La sua crosta è sottile, è viva, sembra ricordarci, nonostante noi, incuranti, la calpestiamo ogni giorno. Di fatto quello che dovremmo imparare, cosa che dobbiamo fare ora per non finire ustionati, è starcene nei nostri sentieri, senza fare troppo i padroni e andare, e fare, quello che più ci aggrada. È questo, un luogo che sembra non avere tempo. Sospesi, quasi in orbita, attraversiamo anche il cratere di Leirhnjúkur e le sue solfatare. È un deserto di lava. Un nero infinito in cui siamo persino riusciti a perderci (mentre #ladolescente si è seduto su una pietra per poi alzarsi all’istante scottato dal vapore che ne è uscito), una dichiarazione di annientamento e creazione insieme. Saliamo anche fino alla cima della caldera del Krafla, dopo esserci tappati il naso nelle vicinanze della stazione geotermica di Kröflustöd, e poi al cratere Viti: nel suo interno il lago è di un azzurro artificiale come il cielo di oggi. Il vento muove la polvere, la luce stordisce. I toponimi indicano che siamo all’Inferno, ma la bellezza è paradisiaca.
L’ultimo cratere che saliamo, per la verità sono poco più di 400 m di altezza, è quello di Hverfell. Stupisce, se ci si può ancora stupire dopo quello che si è visto prima (è uno dei problemi dell’Islanda, è l’abitudine alla meraviglia) perché il cono è completamente di tefrite, e quindi di sabbia nera che dà quasi l’impressione di essere spazzato via da un momento all’altro. Da Hverfell comunque si ha una buona vista sul lago Mývatn e sui tutti pseudocrateri che lo costellano. È una sorta di valle verde e che prima abbiamo costeggiato, quasi snobbandolo, e ora ci aspetta, accogliente, sulla strada del ritorno. La zona lungo il lago Mývatn, figlia delle stesse devastanti esplosione vulcanica, sembra infatti un altro mondo. I sentieri che lo cingono portano a calette in cui sembrerebbe poter fare il bagno. Prati verdi e casette di simil campagna qua e là, uccelli, i ben noti moscerini, angoli a tratti romantici. Partiamo.
P.S. 1 Il sito di Dimmuborgir, che trovate consigliato in tutte le guide è la Gardaland dei campi di lava, evitatelo.
P.S. 2 Non preoccupatevi, timbrate anche le cascate di Godafoss prima, e poi Dettifoss e Selfoss lungo il canyon (meraviglioso) di Jökulsárgljúfur.
Ripartiamo dimenticandoci di toglierci i pantaloncini corti e rimetterci i lunghi. Eppure avevamo letto che il tempo sarebbe cambiato. Quando ci ritroviamo ai confini del deserto di roccia di Ódáðahraun (un altro immenso campo di lava) il vento ci butta quasi a terra e le temperature sono colate a picco. Siamo di nuovo sulla Luna, ma una luna fredda, scura, che all’orizzonte lascia scorgere delle vette che sembrano a volte tagliate con un coltello, altre erette a coni sentinella. Da qui si può imboccare anche la famosa strada che porta all’altrettanto celebre Askja, ma la tempesta di vento e sabbia è forte, il tempo inclemente, e decidiamo di continuare verso sud est. È ancora un saliscendi di rocce scure avvolte in una nebbiolina lattiginosa, quasi ne sentivamo la mancanza… Qualcuno considera questa parte dell’Islanda monotona, spoglia; altri, gravida di poesia e di infinito, io faccio parte dei secondi. A un certo punto, su un cucuzzolo, scorgiamo un cairn e una sedia di legno bianca (se ne incontrano talvolta nei punti panoramici) che si guardano a vicenda. È surreale qui, in mezzo al nulla, eppure ha un senso, che in fondo la strada indicata e percorsa è già un viaggio in sé ed è quello che ti devi godere.
I fiordi dell’est sono un’altra sorpresa, gli scorci verso il mare attirano almeno quelli verso le piccole discese d’acqua che si scapicollano giù dalle colline circostanti. Passato Egilsstaðir, quasi alla bocca del fiordo Mjóifjörður, le Klifbrekkufossar non hanno forse le prestazioni e i muscoli delle cascate più famose, ma ricordano che qui tutto discende dai ghiacci. E che il ghiaccio tutto copre, anche (come si vedrà) i vulcani. Arriviamo a Eskifjörður verso le 6 del pomeriggio. Scendiamo lentamente verso questa manciata di case, guardandole una a una colorate e affacciate sul fiordo e sulla strada (compresa quella con una collezione mai vita di nani da guardino). Ovviamente non incontriamo anima viva, ma, vicino a dei piccoli cottage rossi nuovi di zecca strategicamente piazzati sulla punta del fiordo, vediamo un cartello che porta scritto a mano “Happy Hours!”. Così non resta che entrare e chiedere una birra, mentre su un pontile un ragazzo sembra sfogare (e rigettare) il suo mal d’amore. Ovviamente siamo soli, in un locale bellissimo, pieno di botti in legno e resti marini, con funi e attrezzi agricoli appesi alle pareti, qualche foto antica, candele e corna di alce. Mi chiedo per chi sia tutto questo, e così scopro la storia di Peter Randulff, norvegese, che voi potrete leggere qui.
(Per info turistiche consiglio it.visiticeland.com. Per sapere la mia esperienza ospitalità Airbnb clicca qui. Qui invece la Parte 1, Parte 2, Parte 3, Parte 5 del Giro in Islanda. Se volete sbirciare le mie foto c’è il mio profilo Instagram @manuelamimosa o l’hashtag #tuttalasolitudinechemimerito).