[Pubblicato su Sette/CorrieredellaSera 15 maggio 2015] Quando si dice il tempismo. Il ritrovamento della farina più antica del mondo, quella “rintracciata” (per la precisione si tratta di granuli di amido) sulla macina e sul pestello di trenta mila anni fa rinvenuti nella zona di Bilancino, nel Mugello, è stato annunciato pochi giorni fa. Per la verità, le analisi erano state condotte nel 2010 dal dipartimento di Biologia vegetale dell’università di Firenze, poi però il gruppo archeologico guidato da Anna Revedin, direttrice dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, ha raccolto i rizomi di tifa, una pianta palustre piuttosto comune, li ha seccati, macinati e cotti per farne gallette. «Il sapore assomiglia alla segale, leggermente dolciastro, ma ciò che è importante è che si tratta di un prodotto elaborato che presuppone che gli uomini del Neolitico della zona avessero già delle conoscenze sulle diverse parti della pianta e sulle possibilità di trattarle con processi e tecniche complesse, come la macinazione e la cottura. Cosa che costituisce la premessa alla nascita successiva dell’agricoltura», dice Revedin. L’11 settembre prossimo, una mostra nella sede fiorentina della Cassa di Risparmio di via Bufalini, ripercorrerà le fasi della scoperta, perché da queste parti, l’orgoglio di presentarsi come culla del palato, oltre che della lingua, è sempre vivo. Sarà per quella Caterina De Medici che riuscì ad addomesticare persino la cucina della corte di Francia portandosi dietro pasticceri, macellai, tre cuoche e un gelataio, e pure insegnando loro l’uso della forchetta; e sarà perché anche dalle privazioni, il sale bloccato dalla repubblica marinara di Pisa, sono riusciti a dar vita a un prodotto unico al mondo, quel “pane sciocco” rimpianto da Dante (“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”, XVII Canto del Paradiso), e a un piatto, la Ribollita, nato come avanzo dei pranzi dei feudatari dato ai servi per sfamarsi, ma che fece dire al Barone di ferro Bettino Ricasoli, che quella era una cucina da poveri che poteva stare sulla tavola di un re.
Insomma, non si affetta lardo o raccolga frutto che non si citi quel nome o quell’altro, dagli Etruschi ai Medici. Come non si parla di grano, ma di “memoria dei semi”, perché coltivare qui significa soprattutto mantenere un’identità, riportare in purezza grani di varietà antiche come l’Autonomia, il Gentil Rosso, il Verna Rieti o il Farro Monococco. «Parte dei semi li aveva conservati mio nonno, altri li abbiano avuti da Stefano Benedettelli, e oggi, nella campagna di Semproniano, dopo averli riprodotti e coltivati a ciclo di rotazione, senza nemmeno l’ausilio del letame, produciamo circa 600 quintali di grano l’anno» dice Fulvio Ponzuoli, presidente dell’associazione La Piazzoletta e responsabile della biodiversità della Condotta Pitigliano e Colli di Maremma. Grani che, macinati a pietra e diventati farina, servono i forni Del Ponte di Prato, AleVale di Pistoia e Bizzarri di Scansano, i quali, oggi come allora, lavorano quel pane che per molto tempo in Toscana sostituì la pasta. «Ma non si tratta solo di grani», continua Ponzuoli, «Nel parco mediceo delle Cascine di Tavola, in provincia di Prato, stiamo sperimentando la coltivazione di legumi antichi e locali come il fagiolo zolfino, la cicerchia, il piatellino, il cece rugoso della Maremma o quello dal solco dritto».
Chi invece dalla sperimentazione è uscito per entrare nei produttori di uno dei fagioli più richiesti dai buongustai, sono gli agricoltori che hanno riportato in auge il fagiolo di Sorana. «Nessuno si arrampicava quassù fino a che il nostro fagiolo non ha guadagnato il marchio IGP» dice Mauro Carreri, vice presidente del Consorzio. «Ed è anche per riportare vita il nostro territorio che lo abbiamo recuperato. Siamo in una piccola valle con una terra ricca di ghiaia e sabbia e un torrente la cui acqua è povera di calcio: l’habitat ideale per la coltivazione di questo legume dalla buccia tenerissima e dagli estimatori illustri. Da Gioacchino Rossini, che si fece pagare in fagioli per la correzione di alcune partiture musicali, a Giacomo Puccini, che li inviava a Ricordi consigliandogli pure il metodo migliore per cucinarli». E quando anni fa, la provincia progettò di deviare l’acqua in pianura, a tessere l’elogio del fagiolo di Sorana e della ventina di produttori rimasti, fu Indro Montanelli. Che a Milano se li faceva servire da Aimo e Nadia, cotti al fiasco e conditi con olio extravergine di oliva, dopo averli frantumati con la forchetta. Così oggi di fagioli di Sorana se ne producono ancora dai 70 agli 80 quintali l’anno, costano in media 22 euro al chilo e si trovano nei migliori ristoranti di New York (Sirio Maccioni è stato un efficace ambasciatore) e Londra. Al solito, non sono certo numeri che possono rispondere a una domanda diffusa.
«Se dovessimo mettere in tavola solo Chianina prodotta in Toscana, non basterebbe neanche per mangiarla una volta a settimana» dice Massimo Chianucci. Lui, ultimo di una famiglia di allevatori di Castiglion Fiorentino e che conserva ancora i libri contabili dell’Ottocento quando i suoi avi erano mezzadri, di capi ne ha 34 e per far crescere un vitello alimentato con il foraggio del suo podere impiega trenta mesi prima di darlo alla macellazione. «Gli allevamenti diffusi su tutto il territorio aiutano a mantenere quel paesaggio rurale e a misura d’uomo che è il simbolo della nostra qualità di vita» continua. Un paesaggio in cui, il Bos magnus et albus, gigantesco e bianco latte, originario della val di Chiana e usato come animale da lavoro, è raffigurato dai tempi degli Etruschi. Così, preparare una bistecca fiorentina è da sempre un rito: lombate alte quattro dita con la costola attaccata e “cotta con gran fuoco di carbone di leccio dall’una e dall’altra parte, fino a che i ferri della graticola v’abbiano lasciato la loro ombra, e condita con una spruzzatina d’olio, di sale e pepe”, come scriveva Giuseppe Prezzolini. Il rito oggi si completa con la promozione di tagli meno nobili, ossibuchi, zampi, le parti per bollito e stracotti, ma alla fine allevatori e Maestri dell’Arte dei Beccai, primo fra tutti il Gran Maestro Vasco Tacconi, sono sempre lì. Ed è quello che agli agricoltori toscani piace di più. Raccontare, per esempio, che con lo zafferano, a San Gimignano, ci si sono pagati le torri, e che i suoi stilli erano richiesti fino al mercato di Alessandria d’Egitto. Una delle aziende agricole che lo produce è nel Castrum Cortesianum che Paolo Cortesi durante il Rinascimento trasformò in uno dei centri umanistici più importanti d’Europa. «Di qui passarono da papa Giulio II a Poliziano e Marsilio Ficino; qui Cortesi scrisse il De cardinalatu che, prima di Macchiavelli, descrive la figura del principe della Chiesa, eppure quando arrivai qui, un pomeriggio di gennaio, per acquistare una porzione del borgo abbandonato di Monti, erano solo rovine e per ripristinare tutto ci sono voluti nove anni di restauri» dice Cledy Tancredi. E mentre il castro riprendeva vita, lo zafferano di san Gimignano conquistava la Dop (oggi sono quattro le aziende certificate mentre sei stanno avviando la procedura): un lavoro, dalla pulitura del terreno all’estrazione del bulbi tutto manuale e con una resa impalpabile se si pensa che per produrre un chilo di zafferano occorrono 150mila fiori.
D’altra parte la Toscana è la regione che, con 26 Dop e Igp e 463 specialità alimentari, sta in cima alla classifica italiana dei prodotti agroalimentari. La parte del leone, la fanno il Pecorino Toscano, con 805 addetti, un milione di forme prodotte nel 2014 e fatturato complessivo di oltre 21 milioni di euro, di cui circa 3 milioni di euro dall’esportazione (nel 2013 è nato anche il primo Pecorino Toscano Dop certificato Halal, nel rispetto dei precetti islamici); e il Prosciutto Toscano. Nel 2014, le cosce di maiale dalla caratteristica forma tondeggiante lavorate secondo le norme stabilite all’epoca dei Medici, quando gli ufficiali di Grascia vigilavano sul rispetto delle modalità di macellazione e di trattamento della carne, sono state secondo i dati del Consorzio a cui aderiscono 21 soci, più di 418 mila per un fatturato di oltre 62 milioni di euro e una crescita del 7,1 per cento. Il tempio sacro dell’antica norcineria toscana però è la Macelleria Falorni. Da nove generazioni, da quando nel 1806 Lorenzo Falorni aprì il negozio a Greve in Chianti, a oggi, con un altro Lorenzo che ha aggiunto anche il cognome Bencistà, si tramandano antichi metodi di lavorazione e ricette, nonché la passione per quel suino di Cinta Senese che la famiglia ha contribuito a salvare. E oltre ai tipici salumi, al banco si trovano specialità locali come la finocchiata di Montefioralle, una pancetta più saporita fatta in una frazione di Greve, la pancetta delle Ripe Montoje, una finocchiona super premiata (new entry nell’Igp), il Salame di suino grigio del loro allevamento e, naturalmente, il salame di Cinta Senese.
Pochi lardi, ma per assaporare il più morbido e delicato, bisogna cambiare provincia e salire per una valle stretta che porta a Colonnata. Fino agli anni Cinquanta non c’era nemmeno una strada, eppure nel ventennio fascista gli abitanti erano anche mille e 500: tutti impiegati alle cave di marmo bianco di Carrara. Lo stesso marmo con cui, anche oggi che gli abitanti sono 300, si fanno le conche in cui si lascia a stagionare la schiena del maiale per fare il famoso Lardo di Colonnata. «Per essere precisi, il marmo perfetto è quello vetrino estratto dal bacino dei Canaloni, molto resistente e non adatto alla scultura» dice Federica Menconi della Larderia Fausto Guadagni. Quella di suo marito è stata la prima ad avere l’autorizzazione sanitaria e la denominazione e le sue conche, scavate e non assemblate, risalgano anche al 1800. Le schiene dei maiali che arrivano da Veneto ed Emilia Romagna, vengono lavorate entro 72 ore dalla macellazione. Rifilate, ripulite della sugna, quindi messe nelle vasche prima strofinate con aglio fresco, per almeno sei mesi (ma nel caso di Guadagni nove o addirittura anni se il suino e di Cinta Senese) stanno messe a strati tra sale marino naturale, erbe, immancabile il rosmarino spontaneo, pepe nero e una miscela di più di 15 spezie diverse. Il problema è che, dei 180 quintali annui prodotti da Guadagni, la maggior parte se ne va all’estero, selezionato da uno dei più importanti distributori italiani che rifornisce gli chef stellati di tutta Europa. Peccato, perché sopra una fetta di pane di castagne, come la Marocca di Casola, il connubio è ideale, quasi che Madre Natura avesse messo vicino due alimenti per allietarci le papille gustative.
E in Garfagnana, la farina di Neccio, così come è chiamato il castagno tra queste colline, è tutt’uno con la storia di una comunità agricola che spesso non poteva permettersi il grano. «Negli statuti del Cinquecento si proibiva persino di raccogliere le foglie per fare le piadine: il castagneto rappresentava l’alimentazione primaria, la farina si manteneva anche per due o tre anni e aiutava a superare le carestie» dice Ivo Poli, presidente de La Città del Castagno. «Nei secoli abbiamo selezionato più di novanta varietà di castagne da farina, e ancora oggi, dopo la raccolta, le lasciamo seccare fino a novembre nei metati, i vecchi seccatoi, quindi le facciamo macinare a pietra nei mulini ad acqua: in 24 ore riusciamo a macinarne al massimo tre quintali, così, quando arriviamo sul mercato, la grande distribuzione ci ha già sorpassato». Nella quantità, forse. Ma basta fare un passo da Il Ciulè di Castelnuovo per rendersi conto di cosa si può fare con questa farina poverissima: pappardelle, polente, tortelli e poi creme, frittelle, castagnacci. Sempre meno negli ultimi anni, vero, perché il cinipide galligeno, insetto arrivato da Cina e Giappone, ha ridotto la produzione di più del 70 per cento. «Si spera che avendo introdotto un suo antagonista naturale, il torymus sinensis, questa epidemia finisca. Un castagneto curato e sano serve anche per tutelare del territorio. Per prevenire frane, incendi, smottamenti. Ci sono castagneti storici, che sono un patrimonio per tutta la nostra regione» conclude Poli. Come quello nel comune di Sillano, in provincia di Lucca, un altopiano a 1100 metri di altitudine con centinaia di castagni dai 400 ai 600 anni. In autunno, quando le foglie cambiano colore è uno spettacolo. Poi avanti con la stagione, nel sottobosco arrivano i crochi, le primule. E ora, a maggio, è il tempo della fioritura delle orchidee selvatiche. Aspettando il ritorno delle castagne.
Nella foto opera di Vincenzo Campi, Mangiatori di Ricotta
Non ho avuto il tempo materiale per leggere prima l’articolo che ha scritto e che gentilmente mi ha inviato e per ciò mi scuso, devo però farle i miei conplimenti non solo per la puntualità storica e per la geniale semplicità di linguaggio, ma anche per il modo in cui sceglie le parole e le mette una accanto all’altra, sembra quasi di leggere una poesia,leggendo ad alta voce le parole producono un suono quasi musicale tale che la lettura risulta piacevole, scorrevole, divertente inoltre è riuscita in pieno a dimostrare che la cultura di un popolo si misura a tavola! Cordialmente la saluto, Massimo Chianucci.