Sapete quello che dicono le neuroscienze. Che pure ciò che noi consideriamo bello, dipende non tanto dal gusto personale, ma da quell’equilibrio nelle forme e da quella simmetria che sono “letti” dal nostro cervello come vantaggiosi per la nostra sopravvivenza. La bellezza, dicono, può avere anche effetti antinfiammatori notevoli. Ora, se dovessimo pensare a un bel paesaggio, quello della Toscana, tra ville, colline, vigneti e oliveti, poderi e città, sarebbe semplicemente “il più bello”. “Il più commovente del mondo”, ha scritto lo storico Fernand Braudel, forse più commosso dalla fatica umana che servì a realizzarlo che non dall’opera di Madre Natura. Penso a questo mentre sono affacciata da quel balcone naturale che è il giardino di Villa La Ferdinanda nella Tenuta di Artimino (foto di apertura). Il solito orizzonte verde e oro di campi coltivati ad arte, filari di cipressi e di vigne, il tutto puntellato da pievi, case coloniche e dimore nobiliari, il borgo medievale in lontananza: tutto mi ricorda che a volte il lavoro dell’uomo (e delle donne) lascia persino lodevoli tracce. Che noi riconosciamo come bellezza. Nel caso della tenuta medicea di Artimino, voluta da Ferdinando I (uno dei discendenti di Lorenzo il Vecchio che governarono la Toscana fino al 1737) per andare a caccia e rinfrescarsi nelle calde sere delle estati fiorentine, è bene ricordare che, a questa famiglia di commercianti arricchiti, usurai secondo i più malevoli, non di nobili natali, ma certo amanti dell’arte e del buon cibo, dobbiamo la riorganizzazione del sistema agricolo, e quindi gran parte di quel paesaggio toscano con ville e fattorie, simbolo dell’armoniosa connessione tra architettura e natura. E per questo gradita al nostro cervello .
Dovremmo tenercelo caro (il paesaggio). Mi racconta Alessandro Matteoli, l’agronomo della tenuta di Artimino, mentre mi accompagna in giro per i vigneti a Sangiovese della zona del Chianti, che i cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova la resilienza dei terreni. E quello che una volta era un libero appezzamento, ora è circondato da recinti elettrificati per contrastare l’invasione dei cinghiali (si vedono poco, ma se ci fate attenzione li scorgete). Chissà cosa ne penserebbe Cosimo III, il Granduca che nel 1716 con due bandi definì e difese le quattro regioni a vocazione vinicola (Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno di Sopra) e i relativi vini, anticipando la moderna definizione di DOC e l’idea di delimitare le zone di origine dei vini di qualità superiore. Le vecchie botti, ma soprattutto i lunghi tavoloni in legno forato per colare i liquidi, dove mangiavano i lanzichenecchi, si vedono, e si toccano, ancora nel piano basso della villa, insieme a bottiglie polverose, fiaschi impagliati e pentolame di rame lasciati forse per decoro, e un girarrosto ripreso da un disegno di Leonardo da Vinci, la cui citazione non manca mai nelle dimore toscane che si rispettano.
A Leonardo, mi dico, preferisco Ferdinando I, che spese fior di scudi (sui 100 mila dal 1589 si racconta, inimicandosi lo Stato Pontificio) per la bonifica di molta parte della campagna toscana, e fece pure spostare la foce dell’Arno, per il beneficio di tutti. Cose che valorizzarono il patrimonio mediceo (l’architetto Bernardo Buontalenti, pur ammalato di gotta, e forse per questo simpatico ai Medici, si occupò della costruzione in soli quattro anni di Artimino), e lo indirizzarono ancor di più verso la vocazione agricola del sistema villa-fattoria. Che poi è quello che, tra oliveti, campi coltivati, vigneti e boschi, si vede ancora ora. Se dovessi dirlo in termini contemporanei, direi che in qualche modo i Medici hanno insegnato a restituire al territorio quel che il territorio dà. La villa medicea non era un sistema chiuso, ma il centro di un’economia e di una comunità agricola, un microcosmo simbolo di potere, ma anche di (buona) amministrazione. E ancora oggi, dopo che Giuseppe Olmo, medaglia d’oro del ciclismo degli anni Trenta, l’ha acquistata nel 1989 con l’idea di trasformarla in un luxury resort, la famiglia Olmo continua la produzione di olio e vino, il rapporto con il borgo medievale (un quarto delle case sono stare restaurate per ottenere degli appartamenti per residenti temporanei e turisti) e le sue botteghe, e la cura per le arti e il territorio (leggi il Museo dedicato alla civiltà etrusca).
Per conoscere un po’ di storia di Artimino, la voce migliore è però quella di Carlo Cioni del ristorante Da Delfina, la cui famiglia abita nel borgo medievale dal 1700 (e veniva dalla vicina Samminiatello). Mentre mi fa vedere il menù che riporta gli antichi regolamenti cinquecenteschi sui divieti di avvicinarsi al pozzo quando una donna attingeva acqua o di “tirar cacio” (gioco della ruzzola) dentro le mura del castello, capisco che il fascino di un luogo non si costruisce dal nulla. Che il valore delle “experiences”, gli atelier del miele e il chic-nic, le varie degustazioni e bike tour, sta tutto in quel legame mai reciso con il territorio. La signora Marisa della Bottega Peruzzi, anni 94, ha la casa arredata con i mobili messi all’asta dalla famiglia Riva che solo cinque anni prima, nel 1964, aveva comprato senza fortuna la villa La Ferdinanda dalla contessa Carolina Sommaruga Maraini. Gli abitanti, la contessa, la ricordano ancora con gratitudine, perché si prese cura della gente del borgo, creò asili e un orto dimostrativo dove le ragazze coltivavano legumi e ortaggi, pensò alle cure mediche e all’arredo urbano. Ogni novembre, a partire dal 1917, apriva le porte della villa medicea ai contadini e le famiglie. Ancora a sottolineare che quella residenza, nonostante i contrafforti militareschi del Buontalenti, non è una fortezza, ma un presidio per un territorio che è di tutti. Oggi, le restrizioni del Covid finalmente allentate, si è ripresa l’abitudine di aprire il week end per il picnic glam (lo chiamano chic-nic) anche per chi non è ospite dell’hotel o delle residenze di lusso della tenuta. Basta prenotare il cestino e poi scegliersi liberamente un posto nel giardino. Con vista.
E d’altra parte fu Anna Maria Luisa de’ Medici, sorella di Gian Gastone ultimo granduca, ultima rappresentante del ramo granducale mediceo, che nel suo testamento in cui donava tutto a Firenze e allo stato toscano, fece scrivere che non si poteva: “levare fuori della Capitale e dello Stato del Granducato, Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioje ed altre cose preziose, della successione del Serenissimo GranDuca, affinché esse rimanessero per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri”. Un vincolo, che per molto tempo almeno, preservò quel patrimonio culturale, quella bellezza, che oggi ammiriamo nelle sue varie forme. Ma l’elettrice palatina, in quanto donna senza possibilità di esercitare potere sul Granducato, con quel suo ribadire l’“utilità del Pubblico” e “attirare i forestieri”, ci dice anche che esiste una connessione tra l’ospitalità e il bene comune. Il Grand Tour era nei tempi, come l’inizio dell’ospitalità di lusso e del valore culturale del nostro territorio. E nei tempi, nel territorio, è rimasta.
Così tutto si tiene, tutto in nome di un attaccamento al territorio e alla terra che ha radice antiche e si riflette nelle piccole cose. Mi viene in mente Alvaro, il contadino che cura l’orto di Artimino che approvvigiona, con ortaggi, frutta e verdura, la cucina del ristorante Biagio Pignatta e della chef Michela Botasso. Ti porta in giro tra i suoi” pomodori, le “sue” zucchine, le “sue” taccole, i “suoi” alberi di mele, le “sue” insalate. Un giardino di una bellezza laboriosa che è quasi diventato una meta a sé, con lui che ti accoglie, e ti racconta delle serre. E io sto lì, a guardare la bellezza del cavolo, neanche fosse il girarrosto di Leonardo.