[Pubblicato su Dove settembre 2015] Pochi se ne saranno accorti, ma la notte tra il 30 giugno e 1 luglio scorsi, abbiamo avuto un secondo di tempo in più. Lo ha deciso, come gli compete, l’International Earth Rotation and Reference Systems Service che ha compensato con il così detto “secondo intercalare” la differenza di 0,9 secondi tra il tempo basato sugli orologi atomici e quello, astronomico, basato sull’osservazione della rotazione terrestre. Negli ultimi trentatré anni è successo venticinque volte. Venticinque secondi in più che sono serviti a rendere “armonico” il nostro tempo universale coordinato (UTC), il tempo ufficiale del pianeta, con il ritmo della Terra. D’altra parte, lo diceva Aristotele “il tempo è un artifizio umano così come il bello e il giusto”. Una convenzione insomma, che pure governa, e non solo misura, la nostra esistenza. Come insegnano i filosofi, che sull’argomento non hanno mai smesso di dissertare, dal greco ricaviamo due differenti modi per indicare il tempo: Chronos, che è poi la divinità che ha il compito di numerare e quantificare gli eventi, e Aìon, l’eterno presente, l’attimo che si ripete, che Eraclito descriveva come “un bambino che gioca spostando delle pedine”. In due parole, il tempo della scienza e il tempo della vita. Il tempo meccanico e reversibile, per quanto fascinosamente relativo, e quello della dimensione psicologica che si dispiega tra esperienza, memoria e desiderio.
Ora, se neppure Albert Einstein e Henri Bergson, due che al fluire degli istanti si sono ampiamente dedicati, sono riusciti a dipanare il dilemma su quale dei due sentimenti del tempo più si avvicini al “vero”, con una storica seduta, il 6 aprile 1922 presso la Société Française de Philosophie di Parigi, entrata nella storia, non potremo certo noi venirne a capo. Forse ha ragione il fisico francese Etienne Klein quando ci ammonisce dicendo che «Pensare il tempo è come arare il mare» e che quindi, più di pensarlo, dovremmo goderlo. Quello che è certo è che, in un determinato momento della storia dell’umanità, il tempo, o almeno parte di esso, si è trasformato in una sorta di rivendicazione. Non è stato più, come succedeva nelle abitudini contadine, un ritmo cosmico non programmabile a cui conformarsi e soggiacere, ma abbiamo dovuto, con perizia e tecniche da Signori del Tempo, regolarlo, strutturarlo, contarlo, con la stessa precisione con cui cominciavamo a sfornare prodotti. Il tempo si è così moltiplicato (o forse diviso, chissà), originando diversi tempi: del lavoro, della famiglia, della vita, e infine, il tempo libero. La “conquista” di quest’ultimo, ben descritta da Alain Corbin in L’invenzione del tempo libero (Ed. Laterza) ha segnato uno spartiacque. Qualcuno dice che da allora abbiamo cominciato a divertirci sul serio, ad andare in vacanza, a svagarci, a godere di quell’otium una volta destinato a pochi. Altri, che quello che pensavamo fosse divertimento e libertà, era invece solo istigazione al consumo, mentre la cultura di massa invadeva spazi e tempi individuali (Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Ed. Meltemi).
Rimane invariato il fatto che il tempo, o il nostro modo di rapportarci ad esso, è specchio dei tempi. E mentre noi ci affanniamo a riordinare giorni, settimane e pure stagioni; mentre le riviste annunciano che la domenica è il nuovo sabato (essendo il sabato un rigurgito ansioso del venerdì), ancora non sappiamo decidere se il nostro, di tempo, sia meglio rappresentato dagli orologi liquidi di Salvador Dalì ne La persistenza della memoria, o dalla dinamica ed efficace simultaneità del manifesto futurista. Sarà un caso, ma proprio in queste settimane, il quotidiano francese Le Monde, ritenendo il “Tempo” una delle coordinate culturali messe in crisi dal presente, ha chiamato fisici, sociologi e filosofi a fare qualche riflessione in merito. Tra Jean Viard, Etienne Klein, Erik Orsenna e Carlo Rovelli, ciò che emerge è il sempre più frequente fraintendimento tra i concetti di tempo e cambiamento, quasi che si desse valore a ciò che passa solo in virtù delle azioni che in esso riusciamo a imprimere. I dati, in questo senso, ci verrebbero incontro, poiché secondo le ultime indagini Istat, il cruccio diffuso parrebbe proprio quello della qualità del tempo: «Il tempo libero è sempre più percepito non come tempo residuale, alternativo al lavoro, ma tempo per sé, spazio di vita individuale. Certo, lavoro, vita, famiglia, si sovrappongono, ma in realtà, a essere più insoddisfatti del proprio tempo sono coloro che ne hanno troppo. Per i giovani neet per esempio, gestirlo è un problema. Il rischio, se mai, è che tutto diventi un tempo vuoto o svuotato. Un tempo privo di qualità», dice Isabella Mingo, responsabile scientifica del LoisirLab dell’Università La Sapienza di Roma dove è professoressa di Statistica Sociale, nonché autrice di numerosi libri sul tema e curatrice del questionario dell’indagine in corso Istat “Cittadini e Tempo Libero” i cui dati saranno pubblicati a inizio 2016.
Insomma, non è tanto la quantità del tempo disponibile a fare la differenza, ma il potere di scegliere come, e quando, goderne. Rispetto al lusso profetizzato dell’intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger nel suo famoso articolo su Der Spiegel del 1996, forse quell’idea che la libertà di spendere liberamente la propria vita fosse appannaggio dei meno professionalmente impegnati, è stata archiviata. Sottrarsi al bombardamento digitale è quasi impossibile, l’accesso alle tecnologie non così scontato, e nonostante noi dormiamo in media tre ore in meno dei nostri nonni e le nostre giornate si siano allungate di un dieci per cento, avere tutto questo tempo in più a disposizione rischia di non essere così piacevole. Già negli anni delle salvifiche “35 ore”, Daniel Mothé parlava infatti di un vero e proprio incubo (L’utopia del tempo libero, Ed. Bollati Boringhieri) e, oggi, molte sono le voci che puntano l’indice sulla relazione tra ripartizione del tempo, nuove economie e nuove diseguaglianze. Oggi che da più parti si viene invitati a progettare le proprie ore non in contrapposizione le une alle altre, ma fianco a fianco, in un continuum di vita, lavoro, famiglia, cosa che dovrebbe, ancora non si sa come, renderci persino più creativi. Diceva il professor Brand (alias Michael Caine) in Interstellar, l’ultima riflessione cult dei cinefili sull’immanenza dell’Uomo: «Non ho paura della morte, sono un fisico, ho paura del tempo». Che, per inciso, per quanto ci si sforzi di dilatare, sceneggiare o rendere più sentimentale, nel nostro caso rimane non reversibile. E così viene in mente Eraclito, Aìon, e il bambino che gioca con le pedine. Di quel bambino, concludeva il filosofo greco, è il regno del mondo.
Nella foto l’opera La persistenza della memoria realizzato nel 1931 da Salvador Dalí.