Giovedì scorso, alla vigilia dell’inaugurazione dell’Expo, sono stata invitata a presentare il libro di Stefano Pronti di cui avevo parlato in anteprima con una lunga intervista su Sette/CorrieredellaSera. Si tratta di un libro storico, dotto, molto diverso dai libri sul cibo che siamo abituati a vedere negli scaffali delle librerie e infatti, insieme a me, al tavolo dei relatori c’erano esperti di cultura gastronomica come Davide Paolini e Giovanni Ballarini. Ora, ci sono sempre tanti modi per leggere i libri, e soprattutto, a meno che non si voglia parlare sempre al solito cenacolo chiuso, i libri vanno fatti leggere. Anche a chi come me, di storia e di ricettari antichi, sa veramente poco, ma che ama, come dico, fare connessioni. Comunque chissà perché poi si finisce sempre a parlare di Masterchef e della spettacolarizzazione del cibo, e perché io, alla fine, parlo sempre di donne. Almeno un po’. In fondo, in una tavola di sempre-uomini e sempre-un’occasione.
Perché nella mia conversazione con il professor Pronti, ho spesso chiesto non solo dei cibi e dei cuochi, ma anche delle cuoche. O meglio, delle cuciniere, come vengono chiamate le donne nei dotti libri di cucina quando la loro presenza è nominata in cucina al pari della borghesia che cresce… Tanto per dire, il primo testo che si rivolgeva non solo al ceto medio e alla borghesia emergente, ma anche alle donne cuoche è del 1746, non è italiano, ed è La Cuisinière Bourgoise. La cuciniera piemontese ha ancora un aggancio forte con la cucina francese, poi ci sarà L’arte di far cucina di buon gusto che è una ripresa pedissequa del manuale del marchigiano Antonio Nebbia, e il rivoluzionario La cuoca di buon gusto di un anonimo torinese: un’opera nuova, pensata per i pranzi quotidiani di una famiglia comune, per cui tutto è semplificato. Da notare che nella prefazione si legge: “le donne di campagna, tra le quali sono regolarmente assunte le cuoche che, per disgrazia incalcolabile, non sanno leggere”. In ogni caso, con le cuoche che non sanno leggere si entra nelle cucina delle case. Io direi si entra nella modernità.
Dove però troviamo le donne? Certo, le donne in genere, quasi mai con nome e cognome. Nel lavoro. Allora si legge che, dopo l’ammazzamento del porco con un pungolo nel cuore o con il taglio della carotide, sono le donne che aiutano nello sminuzzamento delle varie parti. E viene riportato un brano in cui “Tanto è di eccellente qualità il sale piacentino di che ne fanno fede i cervelati, le mortadelle, i sanguinacci, i Zambudelli e le salsiccie, e ogni altra sorte di salame che qui da noi le donne fanno.” Le donne sono in alcuni resoconti di spesa di carni acquistate verso il 1734/1736, in una, quella che riguarda l’amazadore Pietro Rossi degli animali per eccellenza, i maiali, si legge che egli è aiutato da due o tre donne: Angela, Giovanna e Antonia. Tre nomi, ancora, per lo sminuzzamento delle carni e l’insaccatura nei budelli. Ora, non so se per cura, ma ho qualche dubbio, si distingueva la pasta fine da tavola da quella per donne e per contadini e la farina fiore per maccaroncini per le donne e quella per i padroni.., ma va da sé…
Il professor Ballarini è stato così gentile da chiarirmi che, no, non era per cura. Ma perché in fondo, la nostra cucina nasce classista e, per natura, maschilista. Così, anche quando Davide Paolini mi ha chiesto se secondo me le cose fossero cambiate, ho risposto che certo non ci rinchiudevano più in cucina a mangiare gli scarti, ma, in fondo, quando si trattava di pensare o comunicare lo chef star, questo è un uomo, mentre la donna ha le sembianze rassicuranti e familiari della mamma di Bastianich. Questo, come è ovvio, non significa che le donne chef non ci siano (ce ne sono, e brave, e super stellate), ma semplicemente, come detto più di una volta, se le cose non sono raccontate non esistono. Che sia ai tempi di Apicio che di Masterchef.