Settimane fa mi chiedevo Cosa resta del turismo in un mondo immobile? Forse, le persone. È probabile che in questa penuria di socialità, in questo bisogno mal espresso di vicinanza affettiva ed emotiva, la mia considerazione sia più un desiderio che un’analisi basata su solidi dati e serie riflessioni sociologiche, eppure qualcosa di vero, e non solo come sentimento personale, c’è. Ho già scritto che, Natasha Grand (direttrice del londinese Institute for Identity) durante la presentazione del Future Brand Country Index ha sottolineato che i luoghi non possono essere completamente districati dalle persone che li abitano. Che sono le persone che contribuiscono a identità, valori o stili di vita che distinguono un Paese da un altro. Ma vorrei provare a fare un ulteriore passo avanti. Freya Higgins-Desbiolles, studiosa e attivista australiana che si occupa di futuro del turismo e quindi di futuro sostenibile, dice espressamente che per un futuro equo e sostenibile post Covid19 è necessario “socializzare il turismo”. Nel suo scritto Socialising tourism for social and ecological justice after COVID-19, dopo aver spiegato il fallimento de facto del così detto “turismo responsabile”, incapace a suo avviso di mitigare le ingiustizie strutturali in base nelle quali opera e prospera lo stesso turismo, Higgins-Desbiolles spiega il bisogno di un turismo incentrato sulla comunità e soprattutto sui suoi diritti, sui suoi interessi e sul suo empowerment.
La comunità al centro
Quella della pandemia è, a detta di molti, un’occasione per ripensare molto dei nostri stili di vita, e fra questi, anche il modo di fare turismo, che, come se fosse un Anno Zero, si trova nella condizione di eliminare quelle storture che ne facevano uno dei facilitatori degli squilibri sociali e ambientali, consumo eccessivo di risorse naturali e cambiamento climatico globale compresi (una ricerca pubblicata su Nature mostra che l’attività legata al turismo rappresenta l’8per cento delle emissioni globali di carbonio ). È un’occasione, è bene ribadirlo, ma nessuno sa ancora la direzione che “il dopo” prenderà, tanto è vero che la studiosa australiana cita Antonio Gramsci: Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Quindi la domanda è: socializzare il turismo, è davvero la strada più seria e sicura per dissolverli? Senza tirare troppo per la giacchetta la parola sostenibilità, che se tutto è sostenibile, pure le mega crociere e lo sci da discesa in over tourism, allora nulla lo è. O lo sarà. Il nuovo modello di community-centred tourism, che pone al centro i diritti e gli interessi dei residenti (al di sopra dei diritti dei turisti e persino dei profitti degli operatori turistici) attraverso una vera e propria “socializzazione” del fenomeno turistico, può sembrare radicale. Ma in fondo, è il momento di avere coraggio ed essere partigiani (sempre per omaggiare Gramsci). Al centro, ricordiamolo, c’è solo e sempre la comunità che insieme diventa comunità ospitante. Può chiarirci qualche idea il documento stilato da Tourism Alert and Action Forum di cui Higgins-Desbiolles fa parte. Socializzare il turismo significa comunità locali ospitanti che definiscono loto il turismo in vece delle imprese “competenti”, negazione della crescita smisurata del turismo altrimenti incompatibile con un futuro equo e sostenibile, retribuzione equa, sicura e protetta per tutti i lavoratori del turismo… . Una comunità locale formata, consapevole e quindi soggetto attivo nella definizione dell’identità del territorio e delle sue risorse, è un tassello fondamentale nello sviluppo in chiave turistica. E gli esempi un mancano neppure in Italia.
Abitanti temporanei
Per esempio, Sciacca, e il suo il Museo Diffuso dei Cinque Sensi è un esempio virtuoso di come, dal basso, con un patto di comunità, si è fatto di un luogo, una destinazione. A Sciacca sono stati coinvolti con un processo partecipato nella definizione dell’esperienza turistica 43mila abitanti. Sono stati stilati ben 54 protocolli di intesa, sono state trasferite competenze alla comunità affinché essa diventasse un’intera comunità ospitante. Un’intera comunità competente attiva e responsabile come una sorta di unica azienda turistica, creando così un circolo virtuoso anche per le ricadute economiche sul territorio. Alcuni lo chiamano social empowerment, sta di fatto che alla fine, ne si esce tutti più ricchi, settore turistico in primis. Un altro esempio è quello di San Leo, un piccolo comune nel riminese a rischio spopolamento. Nell’agosto del 2019 ha visto nascere una prima cooperativa di comunità, Fermenti Leontine, che ha dato il via a una vera e propria consultazione e costruzione di rete con quelle che erano le risorse, anche associative, locali. In poco tempo la cooperativa si è allargata, e dopo una riflessione per rivalorizzare il territorio si è deciso di riaprire di un antico forno attorno al quale “riscaldarsi” anche in senso metaforico. Trasferire competenze a una intera comunità, socializzare il turismo, è un processo che impiega tempo. Eppure, se come si dice, il turista sarà sempre meno visitatore mordi e fuggi, e sempre più abitante temporaneo, questo approccio “community-centred” è anche garanzia di un più autentico coinvolgimento dell’ospite.
L’ospite inatteso
L’idea chiave è che il turismo non sia un obiettivo in sé, e che la domanda non sia la semplice “come far arrivare il più persone possibile”, ma un modo per lavorare per un bene comune. Il turismo diventa così un mezzo per contribuire in modo positivo alla società, alla costruzione di città e/o destinazioni migliori sia per i locali che per i visitatori. Non stupisce allora, che nemmeno una città complessa come Copenaghen, nel suo piano strategico per il turismo da qui al 2030 Tourism for Good parli di una crescita del turismo sostenibile condivisa da almeno l’80 per cento dei residenti locali (che saranno consultati entro il 2021 per la loro visione sullo sviluppo del turismo). E che per abbattere le barriere tra residenti e viaggiatori, le strutture della città dovranno essere utilizzate in modo più ampio, a vantaggio non solo dei turisti, ma anche dei locali. Un turismo che condivide quindi, e che non mette in vetrina, che co-crea valore e non intrattenimento, che si riconosce nella sua comunità ospitante (ricordo a questo proposito l’ambivalenza della parola ospite). Non è un caso che, durante una recente conferenza (ne ho scritto qui), lo chef simbolo della gastronomia della capitale danese, lo stellato René Redzepi, abbia ripetuto più volte che uno degli effetti positivi di questi mesi, sia il ritrovarsi come comunità, di aver lavorato pensando soprattutto per rispondere alla propria comunità (senza inseguire il palcoscenico internazionale). Riscoperta che ha a che fare più con una ritrovata identità che con l’autarchia, ma che forse rinnoverà la buona abitudine, prima di entrare in un luogo d’altri, di chiedere permesso.
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