Vi siete mai chiesti da dove vengono i fiori che avete sistemato nel vaso in ingresso? La strada che hanno fatto rose o peonie prima di finire nel solito chiosco all’angolo da cui vi rifornite? Perché ormai sappiamo tutto sull’origine dei grani del nostro pane, di come sono allevati polli e salmoni, e a ragione vogliamo conoscere chi cuce, e dove, i nostri abiti, ma dei fiori, di quello scampolo profumato di natura che durante il lockdown, tutti ad abbellire balconi e giardini, ha registrato una rigogliosa rinascita, sui fiori appunto, nulla. Eppure, dovremmo sapere che quei boccioli perfetti che la stessa Emily Dickinson scriveva fossero più celesti che terreni, nel 90 per cento dei casi hanno viaggiato fino a trentasei ore, sono stati conservati in celle frigorifere per giorni, e infine trattati con agenti chimici per bloccarne lo sviluppo. Senza menzionare l’acqua sottratta all’agricoltura in Paesi come il Kenya o Etiopia, già sofferenti di siccità endemica, o lo sfruttamento di donne e bambini… Ammettiamolo, raccontata così, anche il più innocuo dei mazzolini perde tutta la sua poesia. È quello che devono aver pensato le donne delle flower farm italiane, poco meno di una ventina di pioniere che, cesoie alla mano, stanno cercando di diffondere nel Bel Paese la filosofia slow flower, nata negli Stati Uniti nel 2013 secondo la definizione datale da Debra Prinzing, per promuovere la bellezza del fiore etico e sostenibile. Un fiore a chilometro zero, dicono alcuni, simbolo di un nuovo modo di guardare il frutto più effimero della natura, a dimostrazione che per l’ambiente si lotta anche con petali e steli.
Il profumo della biodiversità
«Organico, locale e stagionale. Sono le parole d’ordine del nostro modo di intendere la floricoltura», dice Marzia Barosso di Viale Flower Farm, azienda fondata due anni fa nelle colline del Monferrato per produrre fiori da taglio sostenibili. «Coltivando specie diverse e diverse varietà, si crea un habitat capace di attrarre insetti “buoni” e allontanare quelli “cattivi”, mentre noi possiamo fare a meno di antiparassitari, diserbanti o fertilizzanti». Anche Elisa Vanin della veneta Anneris, paesaggista specializzata in giardini all’inglese, era stanca di vedere arrivare i fiori, «sempre gli stessi in qualsiasi stagione», in grandi pacchi di cellophane dall’Olanda. Ora invece, in pieno campo, in balia di vento e bizzarrie climatiche, ci sono dalie, zinnie, cosmee, fiori di calendula e achillea, nigelle damascena, violacciocche, fiordalisi, garofani, papaveri… e poi fioriture spontanee come le carotine selvatiche, prunus e biancospini, salici e vitalba, evonimo e scabiosa. È la fotografia di un paesaggio vivo, che rispetta ritmi della natura e impollinazione, e in cui il coltivato convive con il selvatico e con quello ritenuto, a torto, infestante. Un paesaggio che è il tesoro di ogni flower farm. Perché è lì, tra corolle ribelli, trame nodose, bacche e fogliame fresco; lì, in questo disordine naturale, che le nuove floricoltrici seminano, oltre ai fiori, un nuovo gusto della composizione.
Donne di fiori… local
«Basterebbe fare copia-incolla di quello che vediamo in natura per ottenere bouquet o allestimenti originali, ma con i soliti fiori globalizzati e destagionalizzati, è impossibile. La verità è che si diventa coltivatrici dirette perché è il solo modo di avere il materiale necessario per fare quello che amiamo: uno stile botanico e non decorativo», dice Vanin. Molte, come Martina Pagani di Myrta Flower Farm, Valentina e Cristina Giardini della bolognese Val Dei Fiori, o Alessandra Milici di Victoria Urban Flower Garden, quello stile lo hanno scoperto durante viaggi in nord Europa o tra i mercatini di New York. Architette con in tasca un master di conservazione del paesaggio, agronome, impeditrici agricole, ingegnere, che come Silvia Micheli de I giardini di Mafalda si è iscritta a workshop in una family farm nel Mount Vernon, queste donne sono diventate ambasciatrici di una sensibilità nuova. È l’etica che diventa estetica, o, secondo la definizione di Anna Porciatti, Tania e Tommaso Torrini di Labotanique e La Rosa Canina, Unconditional Beauty: «Abbiamo fondato Slow Flower Italy per promuovere un uso responsabile del verde. Anche le flower designer ora vedono nel fiore locale, rigorosamente italiano, la possibilità di dar vita a un nuovo modo di fare decorazione, in equilibro tra risorse della natura e lavoro dell’uomo», chiosa Porciatti. Al di là di ogni ambizione idealistica, vale la pena infatti ricordare che si tratta di lavoro. Per altro di quello legato alla terra visto che, da sole, a volte con un’amica, la sorella o la madre, si semina, si mettono a dimora i bulbi, si usa la motozappa, si recidono fiori e piante all’alba. Si chiamano affari. Per di più a schiena curva. E dopo due anni dalle prime semine è il caso di tirare le somme.
Tra campi you pick e matrimoni
«L’investimento iniziale è stato ripagato, ma il guadagno, a esser sincere, ancora non c’è. La cultura slow flower è di nicchia, e anche se chi la scopre se ne innamora, per restare in piedi bisogna inventarsi attività alternative» spiega Alessandra Milici. È così che le fattorie dei fiori diventano location per lezioni di yoga, organizzano giornate di visita o si trasformano in “campi you pick” in cui si raccolgono fiori per poi comporre, guidati, il proprio bouquet. E mentre le serre ospitano workshop per essiccare fiori e intrecciare ghirlande, laboratori per imparare la potatura, l’innovazione del settore passa anche per l’attivazione di abbonamenti mensili o settimanali che assicurano la consegna, a casa, di mazzi stagionali. «La moda sta esplodendo, ma non sempre il consumatore finale è pronto», ammette Azzurra Scerni de Il Casale Denari (nella foto di apertura) che dalla prossima estate aprirà le porte del primo flower resort italiano ricavato in un vecchio edificio del Seicento nel piacentino. Cinquanta ettari di terreno una volta destinati a vitigni e oggi a fioriture spontanee di girasoli e narcisi, piuma della pampa e delphinium… «I preferiti dai miei wedding planner, che è ancora con gli allestimenti per cerimonie che da queste parti si fa cassa», racconta.
Non son rose, ma fioriranno
Nessuna dice di fatto che sarà facile ricavarsi un angolo in quei due miliardi e 523 milioni di euro che secondo i dati della Federazione di Prodotto Florovivaistico di Confagricoltura costituiscono il giro d’affari del florovivaismo in Italia. «Tutti i coltivatori italiani hanno sofferto della delocalizzazione della produzione a basso costo operata da paesi come l’Olanda in Africa o Sudamerica» dice il presidente Francesco Mati, «ma chi è riuscito a differenziarsi o a creare nuovi servizi ed esperienze intorno ai fiori, ha resistito». Intanto, con il conforto dei dati che arrivano dalla National Farmer Union che vedono per il mercato dei fiori locali una crescita a due cifre, Slow Flower Italy sta cercando di aprire con Flora Toscana, cooperativa di floricoltori toscani, un tavolo di lavoro per introdurre procedure sostenibili all’interno di aziende di grandi dimensioni. È forse l’inizio di un cambiamento importante nel settore. Che a volte, per fare le rivoluzioni, basta un fiore.
Versione integrale dell’articolo già pubblicato su IODonna a novembre 2020 (qui il link della versione web).