[Pubblicato su Sette/CorrieredellaSera il 7 agosto 2015] Uno tra più vecchi, vecchio di 1200 anni, è tra i così detti Ulivi Saraceni. Come gli altri otto mila sparsi nella tenuta di 37 ettari nella zona di Castelvetrano, affonda le sue radici nelle latomie, le cave di tufo calcareo che i Greci hanno utilizzato, dal V secolo avanti Cristo, per costruire Selinunte, i cui resti sono a sette chilometri. «È per questo, per il nutrimento minerale che le piante ricavano dalla roccia, che l’olio ha un gusto particolarmente dolce». E sarà per questo che l’extravergine di Antonino Centonze, monocultivar Nocellara del Belice, l’unica varietà delle 700 presenti in Italia a fregiarsi della Dop sia per la “versione” da tavola che in olio, fa incetta ogni anno di premi internazionali. «La mia è una produzione “archeolivica”, forse la più antica del nostro Paese, legata alla storia stessa della Sicilia, terra di tutti e di nessuno, che pure continua a conservare la più grande biodiversità europea». Una biodiversità che ha radici antiche, come spiega Massimo Cultraro, primo ricercatore CNR, esperto di archeologia egea e docente all’Università di Palermo: «La Sicilia per le sue caratteristiche ecoambientali è di fatto un piccolo continente, fin dalla preistoria laboratorio di sperimentazione di prodotti alimentari. Un caso unico nel Mediterraneo, arricchitosi accogliendo culture differenti, dai Fenici ai Greci, a tutti i popoli del Mediterraneo orientale, che portarono qui semenze diverse e tecniche nuove come l’addomesticazione della vite o i primi innesti. I culti delle divinità agropastorali presenti lo confermano: da Aristeo, legato all’olivo, a Demetra e Kore, con Enna e il lago di Pergusa epicentro di tutti i riti agrari, fino a Zeus Mellitus, venerato a Selinunte».
Ed è proprio ai piedi di Selinunte, prima colonia dei Cartaginesi e primo ponte tra le due sponde del Mediterraneo, che ha preso vita il progetto Magon, dal nome dell’autore cartaginese del primo trattato di agronomia riferimento per tutto il periodo classico. «L’archeologia della viticultura dice molto sulla cultura materiale dei popoli nelle loro migrazioni, sui loro contatti e scambi culturali. Così oggi con il vigneto Magon abbiamo voluto testimoniare il background culturale comune tra Sicilia e Tunisia» dice Marilena Barbera, presidente della Strada del Vino Terre Sicane. Il prossimo 31 dicembre, il progetto si concluderà con l’apertura di un centro visitatori dove si potranno conoscere dalle diverse tecniche di coltivazione dei quattro vigneti (punico, greco, romano e post romano, anche se le prime uve si raccoglieranno tra tre anni), all’importanza del simposio. Una vera collezione storica e agronomica che rintraccia le origini della viticultura presente. «Vitigni come l’Inzolia, dai sentori di zagara e mandorla, derivano dalla roditis portata dai Greci. E poi il Grillo, nel marsalese, o il Perricone, vitigno quasi sconosciuto al pubblico dei degustatori, ora tornato alla ribalta grazie a viticoltori come Marco Sferlazzo di Camporeale, Francesco Guccione di Monreale o Fabio Sireci di Cammarata», conclude Barbera. Sotto il tempio di Giunone, nella valle dei Tempi di Agrigento, è nato invece il progetto Diodoros. Nel 2012 la prima vendemmia, con un vino nato da un blend di Nero d’Avola, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio: «Sette mila bottiglie che testimoniano come un’area archeologica non sia una zona mummificata» dice Giovanni Greco, presidente della cantina CVA che ha “riattivato” il vigneto semi abbandonato. Ma, come ha spiegato Giuseppe Parello, direttore Parco della Valle dei Templi, al forum organizzato da Unioncamere: «I resti dell’antica città di Akragas sono anche il giacimento agricolo più esteso d’Europa di cui va tutelata la biodiversità anche attraverso produzioni di olio, vino e mandorle, e favorendo il recupero di aree incolte e della “memoria” di processi tradizionali e autoctoni».
Perché, quella della Sicilia è, come dice Alessandra Gentile, ricercatrice del Dipartimento Agricoltura Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania, un’agricoltura eroica: «Un’agricoltura che non ha solo funzioni produttive, ma che diventa presidio di territorio e cultura, di saperi mai più tramandati, di fatiche senza tempo. Sull’Etna si lavora su terrazzamenti che hanno una profondità di poche decine di centimetri e ci sono frutticoltori che conservano varietà come la ciliegia di Don Antoni o le mele Cola e Gelato che raramente sono culture da reddito. Alcune, come il pistacchio di Bronte, che cresce in mezzo alla roccia e alla lava nera, si sono ricavati un posto unico nel mondo; altre, come quelle del fico d’India, perfetta sintesi tra potenza, superamento di limite e bellezza, negli anni sono diventate leader a livello europeo con la nascita di tantissimi impianti specializzati». Ed è, quella siciliana, un’agricoltura visionaria, talvolta struggente e poetica, così come apostrofavano Giuseppe Li Rosi quando, una decina di anni fa, cominciò a ripiantare grani antichi siculi come Timilia, Maiorca, Perciasacchi. «Io faccio parte della civiltà rurale più antica del pianeta, quella dell’Agricoltore. In sei mila anni l’Agricoltore ha conservato un enorme patrimonio di biodiversità: sulla costa, in pianura o in montagna, in Sicilia c’è tutto. Nei miei campi (due mila quintali di frumento l’anno, ndr) ci si può giocare a nascondino. Grani alti anche un metro e 70 centimetri che si nutrono di questa terra argillosa, del clima arido che permette di maturare senza malattie fungine, e della “botta de caudu” di 35-45 gradi prima della mietitura». Grani protagonisti di un progetto ambizioso: «L’anno scorso ho dato a venticinque aziende italiane una popolazione di sementi di frumento composta da due mila varietà e 750 incroci. L’obiettivo è fare campi in cui non vi sia una spiga uguale accanto all’altra e dare il via a un processo di selezione che faccia emergere naturalmente la varietà più adatta a quel luogo. Nell’arco di tre anni, ogni zona avrà il suo seme, un seme scelto dalla Terra e non dalle multinazionali». È il metodo del “miglioramento genetico evolutivo”, secondo Li Rosi, una finestra di speranza per chi vuol fare agricoltura su questo pianeta.
Nella foto, gli ulivi centenari di Antonino Centonze.