Articolo pubblicato su Sette/Corriere della Sera il 7 maggio 2013
Una parola rubata all’agricoltura e alla psicologia sta diventando la chiave di accesso alle nuove pratiche ambientali ed economiche per vincere la crisi. È la resilienza, ovvero l’arte di adattarsi al cambiamento trasformando le incertezze in occasioni e i rischi in innovazione. Un nuovo modo di pensare l’impresa e il ruolo della società che sta dando i suoi frutti anche in Italia
Dall’agricoltura all’economia. Chissà se la psicologa americana Emmy Werner, che alla fne degli anni Ottanta studiò la risposta alle diverse diffcoltà della vita (nascite diffcili, povertà, alcolismo, malattie mentali, violenza) di 698 neonati dell’isola hawaiiana di Kauai, si aspettava una diffusione così capillare della parola resilienza. Una capacità di resistere alle crisi e, insieme, di re-inventarsi, evocata da Barack Obama e dal World Economic Forum di Davos, dalle convention ambientaliste e dall’imprenditoria sociale e cooperativa. Eppure, fno a poco tempo fa, in Europa si parlava di resilienza soprattutto riferendosi agli esseri umani, bambini o adulti, che avevano subito un trauma, e uno degli studiosi che più ha sviluppato questo concetto è il neurologo, etologo e psicanalista francese Boris Cyrulnik (i suoi libri sono editi in Italia da Codice ed.): «Il destino della parola resilienza è tipico di tutti i termini polisemici. Se Werner la applicò in ambito psicologico, negli Stati anglosassoni la parola resilienza veniva usata abitualmente in meccanica, metallurgia e soprattutto agricoltura, dove un suolo si defniva resiliente quando, dopo una calamità naturale come un’inondazione o una siccità, era capace di riprendere vita, anche se sotto una forma diversa rispetto a quella precedente lo shock ambientale. Ma come sempre, è il contesto a dare senso alle parole e oggi il termine resilienza sembra proprio la metafora giusta per identifcare quei tempi e modi di reazione necessari per superare gli stress economici, sociali e ambientali in atto. Del resto, dopo un qualsiasi trauma, è naturale essere portati a modifcare la nostra struttura mentale o sociale per continuare a vivere».
Così, quasi come un suolo agonizzante o un bambino che ha subito un trauma, il mondo di oggi si appresta ad affrontare la sua prova di resilienza. A misurare la sua capacità di adattarsi a contesti sempre mutevoli, di resistere ai contraccolpi di un’economia al collasso e di recuperare un minimo equilibrio sociale. Secondo il rapporto National Building Resilience to Global Risks di Davos infatti, la resilienza è l’unica reazione sana in un mondo sempre più interdipendente e iperconnesso. L’unica via di uscita per riprendersi, più velocemente possibile, dopo i fallimenti ambientali ed economici degli ultimi anni. Ecco perché, più che una semplice parola, resilienza è diventata una defnizione operativa, un progetto di trasformazione costruttiva, la ricerca e l’approdo a un nuovo modo di pensare. Come sostiene Ervin Lazlo, se il mondo è davvero vicino al cosiddetto punto del caos, i problemi non si possono risolvere con lo stesso livello di pensiero che avevamo quando gli stessi si sono creati. Bisogna, resilientemente, come recita il titolo dell’edizione 2013 di Segnavie, avere Il coraggio di cambiare rotta. E anche, di concerto, assumersi una certa propensione al rischio, vissuto come chiave di innovazione e occasione di crescita.
Il ruolo del rischio. Dal 9 maggio, tra i relatori del calibro di Erik Hanushek, esperto mondiale dell’economia dell’istruzione, e dell’urbanista visionario Charles Landry, a parlare al Centro congressi Papa Luciani di Padova, ci sarà anche Alberto Sangiovanni Vincentelli, tra i teorici della cultura del rischio: «Non ci può essere innovazione senza rischi. Che siano tecnologici, di mercato, organizzativi o da eventi esterni e imprevedibili, essi sono intrinseci di tutte le start-up che, proprio per questo, diventano il veicolo più comune di ogni innovazione». Cambiare la percezione del rischio, servirà d’altra parte a guardare in modo meno ineluttabile agli scenari presentati talvolta come apocalittici, con due sistemi, quello economico e ambientale, ormai in rotta di collisione. L’altra modalità per rasserenare gli animi socio-politici è invece quella di dare una misura alla propria capacità di resilienza. Oltre all’indice di fiducia globale proposto sempre dal World Economic Forum di Davos, molte altre università, centri studio e organismi sovranazionali si stanno occupando di definire le capacità resilienti. Eurasia Group ha elaborato per esempio il Global Political Risk Index, la banca cantonale di Zurigo il Sustainability Index, l’Università di Malta studia da anni il modo per valutare la resilienza economica, mentre a Yale si lavora per dare una dimensione quantitativa certa alla risposta ai disastri ambientali, solo per citarne alcuni.
Ma quali sono, o dovrebbero essere, i fattori di resilienza di un Paese, di una comunità o di un’impresa? In generale è, o sarà, resiliente chi riuscirà a sfruttare l’incertezza per progettare nuove soluzioni e affrontare sfde collettive. Chi promuoverà atteggiamenti inclusivi verso gli immigrati sull’esempio del programma federale canadese che nel 2011 ha ammesso più di 57mila stranieri e ha fatto crescere l’economia. Sarà resiliente chi faciliterà la partecipazione tra pubblico e privato, tra Stato e social network, tra cittadini e istituzioni, mettendo l’intera società in grado di auto-organizzarsi e cooperare. Resiliente, e vincente, sarà chi investirà in un maggiore accesso alle tecnologie, chi riuscirà a fare della società civile e delle sue imprese un attivatore di bene collettivo trasmettendo informazioni in modo rapido ed efficace. E sarà sicuramente resiliente chi sarà capace di trovare nuovi modelli di finanziamento favorendo la collaborazione di diversi soggetti e discipline e, coltivando l’intraprendenza e la flessibilità, saprà mutare il ruolo del proprio business aprendo la sua impresa alle sfde sociali e ambientali. Cosa che, in termini molto concreti, stanno facendo alcune aziende italiane che, grazie proprio alla loro capacità di coniugare missione sociale e finanza sostenibile, hanno risposto meglio di altre a quel tanto ricercato dinamismo resiliente. Sono le imprese cooperative e sociali. «Più che di resilienza si dovrebbe parlare di capacità anticiclica, visto che, rispetto alle imprese di capitali, le cooperative hanno reagito meglio al ciclo negativo. Dal 2007 al 2010, il fatturato di queste ultime è cresciuto infatti di quattro volte rispetto alle Spa, mentre il costo del lavoro è aumentato del doppio pur in assenza di un aumento dei salari netti, cosa che ci dice che anche i livelli occupazionali sono aumentati».
Servono politiche micro. A parlare è Carlo Borzaga, professore di politica economica alla Facoltà di Economia dell’Università di Trento e presidente di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises). I loro studi sulle capacità di ripresa di questo tipo di imprese parlano chiaro: «Per ragionare in termini di resilienza è necessario passare dal macro al micro. Finora le crisi sono state affrontate attraverso politiche di macroeconomia, politiche che hanno perso incisività riferendosi esclusivamente all’incremento di domanda e produttività o alla diminuzione dei costi, ma ora che non possiamo più crescere sul debito, né pubblico né privato, dobbiamo tornare alle politiche industriali, le politiche micro. È necessario trovare settori nuovi su cui investire, rimettere in discussione il nostro modo di concepire l’impresa e l’intervento pubblico, rispondere finalmente a bisogni veri. La vera ragione della resilienza della forma cooperativa sta nella natura proprietaria dell’impresa: gli azionisti tutelano il patrimonio, i titolari di una cooperativa devono invece continuare a garantire il fatturato sul mercato e sono quindi più portati a trovare soluzioni. E una delle soluzioni più efficaci, sperimentata anche da alcune aziende del Brenta, leader nel settore calzaturiero, e da altre emiliane che operano nel settore della motociclistica, è quella di fare Rete. Si possono fare contratti di Rete per aprire negozi all’estero o per rispondere a cali di fatturato di un’intera filiera produttiva. E non si tratta di vincoli, bensì di condivisione di competenze, informazioni e knowhow tecnologico. Questo dimostra che la cooperazione è una pratica reale di resilienza». E se poi volessimo portare tutta questa cultura della resilienza anche nella grande impresa? «Allora», continua Borzaga, «bisognerebbe forse tornare al pensiero di Adriano Olivetti o ancora di Henry Ford e capire che la logica del profitto non garantisce sul lungo periodo. Bisogna accumulare ai fini di investimento e non di costituzione di grandi patrimoni, persino Steve Jobs non ha mai distribuito un dollaro di utile…». E magari ricominciare a concimare, di idee e nuove pratiche, quel suolo inaridito. (se ti interessa resilienza e clima clicca qui).
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