Chissà dove sono finiti i “neet”. Gli sdraiati, gli scansafatiche, gli inconcludenti. Facendo due chiacchere con le ragazze che hanno deciso di dare nuova vita a campagne semi abbandonate, paesini di pochi abitanti, valli montane, verde urbano dimenticato, non se ne trova traccia. È rimasta solo quella capacità di innovazione che alcuni neuroscienziati dicono naturalmente insita nel loro cervello fresco di modellazione. Ma non è un caso: le lauree in economia dello sviluppo, comunicazione interculturale, progettazione di bandi europei, architettura con master in rigenerazione urbana o culturale, parlano da sole. Come le trasferte all’estero per tirocini, scambi, specializzazioni. Tornate, si sono messe in gioco per creare le condizioni che permettessero a loro, e ai loro coetanei, di restare. D’altra parte, i dati dicono che il 64 per cento dei giovani resterebbe in queste aree marginali se ne avesse la possibilità, e il 93 collaborerebbe volentieri con le amministrazioni. È pur vero che tanto di parla di Strategia Nazionale per le Aree Interne, di un Cantiere Giovani, che persino il Recovery Plan dedica capitoli alla tutela e valorizzazione di borghi e paesaggio rurale, le luci sono tutte puntate su di loro. Ma, loro, hanno iniziato al buio. E non hanno atteso l’età della pensione per capire che la qualità della vita non è fatta solo di successo economico e lavorativo. Alcuni dicono che sono l’esempio di quello che viene chiamato happiness reset, un nuovo senso della felicità , ma sarebbe già bello se fossero l’emblema della generazione che costruirà il futuro. Disposte a prendersi carico e cura di territori in abbandono e puntare tutto su ambiente, sostenibilità, senso del bene comune, e una tecnologia veramente al servizio dell’essere umano. Sarebbe bello. Basterebbe lasciarglielo fare.
Silvia di Passio, Daria Tiberto, Giulia Cau
«È difficile spiegare quello che faccio, anche perché in Italia la figura della community manager per aree rurali non è riconosciuta, ma quando devo fare in poche parole dico: era quello che faceva Barack Obama negli anni Ottanta». Quasi una “veterana” Silvia, laurea in Relazioni Internazionali, una tesi fatta in Bolivia sulle culture indigeniste e minoritarie, la collaborazione con il GAL (Gruppo di azione locale, ndr) Versante Laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo, e i master in educazione non formale. Entusiaste della prima ora di questo lavoro finalmente sul campo, Daria, direttamente dal corso di Metodologia, organizzazione e valutazione dei servizi sociali dell’università di Trento, e Giulia, che dopo tre anni in Uganda come Project Manager per lo sviluppo comunitario rurale ora è qui, in Sardegna, a Seneghe. Insieme, sotto l’egida di Arco, il primo progetto che coinvolge cento giovani di cinque regioni italiane, stanno lavorando per la ri-generazione di questo borgo agricolo sardo da dove di solito i giovani se ne vanno. «Lo fanno perché non riescono a immaginarsi in modo diverso, hanno idee, ma non vedono la via per realizzarle. Quello che facciamo noi, da animatrici territoriali, è ascoltare, ristabilire fiducia, allargare l’orizzonte, metterli in contatto con quello che succede in Italia e in Europa». Così, ogni mattina Silvia, che ormai condivide l’ufficio con il sindaco di Bauladu, paesino di 600 abitanti nell’oristanese, esce di casa e comincia a parlare con tutti quelli che incontra. Per strada, in piazza, al bar (dove regolarmente le offrono il caffè, «Ma meno male che l’acqua si paga», dice). Nei laboratori collettivi si creano, insieme agli abitanti, mappe di idee, si pensa a che giochi per bambini realizzare nel parco, cosa fare delle case del centro storico in semi abbandono… «È un lavoro basato sulla passione, su un forte senso dell’etica. Per la nostra generazione, che è cresciuta vedendo i genitori stanchi di tornare a casa dal lavoro insoddisfatti e che vive sulla propria pelle l’eredità del fallimento dell’ideale del successo economico, agire sul locale, pur essendo connessi al “globale” è un modo per costruire un’altra idea di vita. Che non è rosa e fiori, perché in queste piccole realtà essere una giovane donna è tutt’altro che facile, ma aiuta a costruire reti e relazioni, e trovare insieme a chi abita queste realtà un modo per restare». È stato così, prima di Seneghe, dove ora i giovani stanno scrivendo un Manifesto delle Politiche Giovanili da presentare a settembre, a Olollai, Ortieri, Santa Giusta, Nughedu Santa Vittoria. Fare la facilitatrice per le comunità rurali significa stare in un luogo per un anno, un anno e mezzo e poi partire, riallacciare nuovi legami, cucire altre storie. Cosa resta di tutto ciò? «Rimangono, nelle persone che hai incontrato, delle competenze per fare impresa, per costruire reti e associazioni, delle relazioni con istituzioni che prima non c’erano, rimane un’idea di sviluppo locale e soprattutto rimane la speranza, o meglio la consapevolezza, che qualcosa si può fare. Che si può cambiare».
Irene Crosta ed Eleonora De Biasi
Non sembra neanche di essere a Genova, entrati nella “selva” delle Serre di San Nicola. Una volta erano il parco di 25mila metri quadrati del vicino Albergo dei Poveri, poi vivaio del Comune e infine regno incontrastato della vegetazione. Da qualche tempo però è anche il luogo simbolo di rigenerazione, con una delle serre, la Maggiore, finalmente svuotata per diventare nei prossimi mesi un Laboratorio d’Inverno che ospiterà eventi, mostre, conferenze, laboratori. Un luogo in cui Irene, studi in storia e progettazione culturale tra Milano, Madrid e Scozia, ed Eleonora, storica dell’arte con un master in rigenerazione urbana, hanno visto fin dall’inizio, la possibilità di creare un incubatore di idee per parlare di ambiente, economia circolare e comunità. «Le serre sono l’unico spazio verde in città e il simbolo del rapporto tra essere umano e natura. Quello della rigenerazione delle aree dimenticate, che siano urbane, periferiche, rurali, è uno dei grandi temi della nostra generazione. Non so se è il nostro modo di occuparci della cosa pubblica, ma so che nella potenzialità di questi luoghi bisogna crederci: io, per esempio, sono una di quelle che è tornata a cercare un lavoro nel mio Paese, che si è rifiutata di scappare. Credo che questo sia, insieme a quello di decidere di attivarsi per cambiare anche un piccolo pezzo di terra, di usare la cultura per riappropriarsi del senso di appartenenza a una comunità, un atto politico». Da settembre, sempre grazie all’associazione Alle Ortiche da loro fondata, alle serre installeranno la prima compostiera di comunità, con trenta famiglie che porteranno i rifiuti organici per creare compost da usare nelle serre stesse. «Da fantasma urbano a luogo di creazione e partecipazione. Un’idea che, come le migliori, è nata davanti un bicchiere di vino».
Jessica Degioanni
«Queste montagne bisognava smuoverle, raccontarle in modo nuovo, così insieme ai miei compagni di Rifai, Rete Italiana Facilitatori delle Aree Interne, abbiamo deciso di girare dei cortometraggi che parlassero di noi e degli abitanti di questa valle. Io ho impersonato una ragazza che facendo l’autostop chiedeva un passaggio per andare a un concerto rock. L’autostop su tornanti montani semi deserti…». Le montagne di Jessica sono quelle dell’Alta Valle Stura, gli abitanti quelli di Vinadio e dei borghi vicini, il sogno, quello di creare un ambiente in cui i giovani possano riconoscersi e i turisti finalmente arrivare. «Io, per esempio, vorrei fare l’etologa qui, un giorno. Studiare “fuori” mi ha aiutato ad apprezzare la bellezza dei miei luoghi, ho visto cose che prima ignoravo, e l’attaccamento a paesaggio e persone è aumentato. Quello che faccio è semplicemente far capire il valore di questa terra a chi lo dà per scontato. Il Museo della Guerra e della Resistenza di Valloriate, per esempio, lo stiamo ripensiamo insieme alla comunità locale, che ci aiuta a catalogare i vari oggetti, individuare percorsi, pensare eventi. C’è anche chi ci dà una mano a scrivere i bandi e a gestire le pratiche burocratiche, perché certo non siamo professionisti. Lo faccio per la (mia) valle, non per i soldi, ma una cosa la voglio dire: tutti parlano di rivitalizzazione, di sostenibilità. Non sono cose da perseguire, sono temi imprescindibili, che vengono prima, non dopo. Per quanto mi riguarda, non c’è scelta. Quando sono tornata, ho organizzato un aperitivo in paese per esporre le mie idee. All’inizio eravamo in quattro, ora siamo molti di più, ci siamo messi in rete con altri giovani interessati alle aree rurali, e siamo andati a bussare alle porte dei sindaci di tutta la valle. Se oggi mi incontrano, mi riconoscono e a volte mi ringraziano. La mia generazione ha banalmente realizzato che se non siamo noi a smuovere le cose, o almeno a muoverle nella giusta direzione, la possibilità che si cambi in meglio non ci sarà mai».
Aura Zanier, 25 anni
Cosa ci fa una ragazza di 25 anni a fare la presidente di un’associazione fondata negli anni Settanta per organizzare mostre di artigianato locale? «Il vecchio presidente si era dimesso e io non me la sono sentita di lasciare che andasse tutto perduto. Socchieve, la Carnia, è dove sono nata. E quando sono tornata, dopo un master a Bologna per l’imprenditoria nello spettacolo, mi sono accorta che organizzare una mostra qui (Rassegna Carnica, ndr), veder arrivare anche solo 50 persone per un dibattito, mi dava una soddisfazione quasi più grande che se fossi stata in una grande città con molto più pubblico. E il bello è che non sono la sola a pensarla così. Nel “vecchio” Comitato Gianfrancesco da Tolmezzo ormai sono tutti miei coetanei. Oltre a prenderci cura della vita culturale del nostro paese di 900 abitanti, lavoriamo per salvaguardare la natura della Carnia e per far sì che il fiume Tagliamento diventi patrimonio Unesco, e con Next Generation F&VG ci siamo messi in rete con i giovani dell’intera regione. A volte penso che il Covid mi abbia dato l’ultima spinta per apprezzare definitivamente questa dimensione rurale. Una dimensione in cui l’acqua non sa di cloro, ho pure le mie galline e un sacco di spazio verde a disposizione. Lo so che molti definiscono queste aree marginali, cosa devo dire? A me basta uno smart phone per collegarmi con il mondo».
Federica Savarino e Gabriella Lo Bue
Una, appena è arrivata dall’Argentina all’aeroporto di Palermo è andata a registrare un’associazione, Cunta e Camina, per il suo paese di San Biagio Platani; l’altra ha deciso di non ascoltare più chi le diceva “Ma cosa ci fa qui a Prizzi” e un giorno in Belgio non è più tornata. «Il territorio dei Sicani è grande, 29 comuni, 29 dialetti e due province (Palermo e Agrigento, ndr), ma noi abbiamo pensato che mettersi in rete, pensarsi non come singoli borghi, ma come parte di un tutto, fosse la sola possibilità di riscattarsi: questo è lo spirito di Sikanamente». Un riscatto fatto letteralmente su due piedi. «Costruire passeggiate ecologiche e ambientali nei nostri borghi e campagne ci è sembrato il modo migliore per rivalorizzare la zona. Lo abbiamo fatto all’inizio per gli abitanti e i nostri coetanei che vorrebbero solo andarsene da qui, ché vedessero con i loro occhi, la storia, il paesaggio, persino la biodiversità dei luoghi in cui erano nati. E ora lo facciamo per promuovere un turismo lento che possa dare lavoro a chi resta. E quest’estate, quando ci sarà anche una segnaletica ad hoc per il distretto rurale dei Sicani, staranno con noi anche venti giovani da Russia, Argentina, Francia, Grecia, Lituania… Vogliamo solo dimostrare che anche se siamo “ai margini”, possiamo essere al centro del nostro mondo, e per i molti che non sono usciti nemmeno dal loro comune, portare il “mondo” in casa. Chi è stato lontano come noi ha imparato che per una qualità della vita almeno vicina a una sensazione di felicità, serve ritrovare un senso di comunità e di solidarietà che qui c’è. E non è romanticismo. A volte ci sentiamo pesci fuor d’acqua, la cultura che domina è ancora conservatrice, ma abbiamo semplicemente smesso di lamentarci».
Articolo integrale del pezzo pubblicato su IODonna a maggio 2021