All’ultima edizione di Smart Mountains in Calabria, si è parlato di un nuovo, e nuova, pastore, il Pastore 4.0. In preparazione, forse, al 2026, che le Nazioni Unite hanno dichiarato Anno Mondiale dei Pascoli e dei Pastori. Io avevo incontrato quattro giovani donne che si dedicano alla pastorizia. Ecco le loro storie.
Eva Gotsch, 24 anni, pastora in Alto Adige
L’unica cosa che potevo fare da bambina era dare il biberon agli agnellini e coccolare i vitelli. Ora che ho 24 anni, penso di poter iniziare a gestire io stessa il maso di famiglia (il Gurschl, in val Senales, ndr). In fondo, mucche, pecore, maiali e pony, sono cresciuti con me e li conosco bene!
Quanti animali ha al maso? Settanta agnelli, tre montoni e ottanta pecore di una razza tipica locale in via d’estinzione. Sono bianche, senza corna, con testa curva e orecchie cadenti. Amo il loro aspetto, ma anche il carattere: sono pecore molto resistenti e adatte alla montagna.
La transumanza è lunga e faticosa. Come la affronta? Innanzi tutto, non sono sola. A portare le pecore da Vernago fino alla valle Niedertal in Austria, attraversando il ghiacciaio Niederjoch, ci sono una ventina di pastori che vengono da tutto l’Alto Adige con 1500 pecore. Io accompagno sempre quelle con gli agnelli, ovvero il gruppo più debole a cui è concesso di fare pause più frequenti per bere e riposare. Certo, resta faticoso, il terreno è impervio soprattutto quando ci si avvicina al ghiacciaio. Negli ultimi anni, tuttavia, si è sciolto così tanto che lo si vede solo da lontano.
Come riconosce le sue pecore in mezzo a questo grande gregge? Ho il mio “marchio di montagna”: un punto rosso tra le scapole. E poi le mie sono tutte bianche, e riconoscerei la loro faccia tra mille. Come se fossero esseri umani.
Ci sono altre donne con lei? Sì, ci sono altre ragazze della mia età ed è sempre molto divertente. Partiamo a giugno e le andiamo a riprendere a settembre. In estate resto al maso a occuparmi degli altri animali, quindi, queste due “passeggiate” sono quasi una vacanza. Lo so che è una tradizione antica, apparentemente non adatta ai giovani, ma finché ci divertiremo si conserverà (foto ritratto e apertura courtesy ©IDM Südtirol-Alto Adige).
Marta Fossati, 40 anni, pastora e casara della valle Stura, Piemonte
E pensare che da bambina le odiavo. Le vedevo sempre nervose e disobbedienti mentre le mucche erano così tranquille. Poi, a 18 anni, quando sono andata via da Sambuco, le capre sono diventate un lontano ricordo, ed è stato solo 13 anni fa, quando ho deciso di tornare, che vedendo una bellissima capra dal pelo lungo scappare me ne sono innamorata. Un tardivo colpo di fulmine! (foto ritratto courtesy ©Lucio Rossi per le Terre del Monviso).
C’è una foto che la ritrae mentre una capretta la bacia. Ha davvero un rapporto così affettuoso? Sì, lei si chiama Petite, ma chiamo per nome più della metà delle mie capre. L’anno scorso è morta la più vecchia, Juve, aveva 17 anni ed era bianca e nera! Nonostante sia un’allevatrice instauro una relazione, tanto che anche quando i capretti sono tutti insieme, riesco comunque a riconoscerne la madre.
Come ha deciso di fare la pastora? Il desiderio di tornare a vivere in valle era forte, ma anche se sono figlia di un pastore, pochi prendevano sul serio una giovane donna. Trattare con i commercianti di bestiame o di fieno non era facile. Ora che ho aperto il caseificio (Bars Chabrier, ndr) va meglio, ma la pastorizia rimane un ambito maschile. Eppure, io resto buona parte dell’estate nella borgata Chiardoletta, a 1450 metri di altitudine, insieme alle capre giorno e notte! Solo recentemente, con la nuova stalle e la sala mungitura, scendo a valle più spesso.
Cosa produce a Bars Chabrier? Formaggi a pasta morbida, ricotta e yogurt. Ultimamente macelliamo le capre a fine carriera e produciamo ragù e insaccati. Con sei aziende agricole locali abbiamo formato un consorzio, Montagnam, per dare un marchio ai prodotti della valle Stura. Vendiamo in un negozio di Rittana, Andata e Ritorno, e on line. È stata una sfida nata nel periodo Covid.
Una pastorizia 4.0? Per il mio lavoro il contatto umano è importante, così molti vengono nei fine settimana direttamente in azienda a Sambuco. Alcuni si stupiscono. In paese siamo settanta abitanti, di cui dieci bambini, ma è la vita che mi sono scelta.
Maria Antonietta Scalera, 32 anni, pastora dell’Alta Murgia, Puglia
Ho amiche dottoresse, insegnanti, ingegnere ambientali. Esco tutte le sere e ad Altamura ho un’intensa vita sociale. Non mi faccio cruccio di essere l’unica pastora delle Murge, ho una “collega” siciliana e ci teniamo compagnia a distanza mentre siamo al pascolo (ritratto courtesy @ValentinaRosati).
In che zona porta il gregge? Nella campagna dell’Alta Murgia. Di qui passa il cammino materano, è un bellissimo paesaggio. Io me lo godo con 150 pecore di razza Comisana, le siciliane dalla faccia rossa, e qualche capra.
Come è la sua giornata? Dipende dalle stagioni. In primavera la sveglia suona alle 6 per la mungitura. Poi do loro da mangiare, controllo che nessun agnellino sia stato abbandonato, quindi, sto al pascolo fino alle 16 per poi tornare in azienda per la mungitura serale.
È un lavoro duro, perché lo ha scelto? Da che mi ricordo ho sempre voluto fare questo. A quattro anni svegliavo mio papà per mungere le mucche in masseria. Avrei voluto fermarmi alle scuole medie e stare in campagna, ma mi hanno convinto a frequentare l’Istituto Tecnico Agrario di Matera, cercando di dissuadermi e prospettandomi un lavoro poco redditizio.
E avevano ragione? Economicamente non è certo una passeggiata. Noi produciamo anche formaggi, ma le spese sono tante. Ho delle idee per il futuro però. Vorrei comprare altro terreno per migliorare il pascolo e mi piacerebbe organizzare eventi culturali in masseria: la scorsa estate abbiamo ospitato una rassegna teatrale. E poi fare un po’ di ospitalità, far vivere a tutti l’esperienza di un giorno in fattoria. Credo che diversificando le attività si possa anche guadagnare qualcosa in più. Io ci credo.
Chiara Trettel, 45 anni, pastora in val di Fiemme, Trentino
In mezzo a natura e animali ci sono nata. Sono figlia di agricoltori, ma fino a che la più piccola delle mie tre figlie ha avuto otto anni, ho fatto la mamma. Poi, quando erano abbastanza grandi per accompagnarmi, ho deciso di avere un gregge di 350 pecore tutto mio.
Perché ha scelto la razza Biellese? Sono animali grandi ideali per la produzione di carne e adatti alla transumanza. Non stanno quasi mai al riparo. Così da maggio a novembre le porto in giro nei prati del Doss Cappello, sopra i 2mila metri. Mi spiace solo che la lana, ideale per imbottiture e tappeti, non venga valorizzata come un tempo e finisca con l’essere uno scarto.
E in inverno? Se ne vanno “in vacanza” in Veneto con un altro pastore. Le riprendo a maggio verso Trento e, insieme a mia figlia e qualche cane, facciamo una tre giorni di cammino attraversando il parco naturale del Monte Corno, fino a casa. Dormiamo in un van…
È una bella avventura… A me piace questa connessione con gli animali e non mi spaventa la solitudine. La scorsa estate, per esempio, è tornato un lupo. Mi ha mangiato una pecora con il suo agnellino in un giorno di nebbia. Ho dovuto rinforzare il recinto, prendere altri cani. Per me è una dimensione speciale.
Oggi molti giovani si avvicinano alla pastorizia. È vero, spesso però l’entusiasmo iniziale si scontra con la realtà. C’è la fatica della montagna, la noia, e poi le pecore non hanno orari, tantomeno seguono il meteo! La verità è che bisogna essere preparati. Due delle mie figlie, pur frequentando l’università, mi aiutano in estate. La più piccola in autunno comincerà l’Istituto Agrario, ma già ora viene in malga con me. Forse pastore ci si nasce.