E pensare che avevamo appena finito di festeggiare. Nel 2019 l’industria del turismo aveva contribuito al 10,4 per cento del PIL mondiale e, con quasi 1,5 miliardi di turisti internazionali, festeggiava i dieci anni consecutivi di crescita. Nel 2030 si prospettava spensieratamente il raggiungimento di 1,8 miliardi di turisti e invece, pochi mesi dopo, ecco che, sempre secondo il WTO, il numero di turisti nel 2020 nel mondo potrebbe scendere fino al 30 per cento rispetto al 2019, con un crollo delle entrate fino a 410.000 milioni di euro. In pochi mesi sono cambiate le nostre prospettive, la nostra realtà quotidiana e le nostre parole. Non è la prima volta che succede. Il mondo si era già ristretto dopo l’11settembre, quando forse per la prima volta si è materializzata la possibilità di una paura diffusa che poteva incidere sulla nostra libertà di movimento. Negli ultimi decenni, diversi eventi hanno inciso in modo negativo sull’industria turistica (si pensi solo alla “grande recessione” del 2008-2009, seguita alla caduta della banca americana Lehman Brothers, che portò a un calo del 20 per cento annuo nel commercio mondiale), ma per avere consapevolezza di questa caduta, bisogna sentirla sulla propria pelle, deve invadere il nostro mondo. Non solo, deve entrare nel nostro lessico quotidiano.
Ripeto, è già successo. Chi ha letto il libro di David Quammen Spillover si è accorto che tutto sommato fino a ora siamo stati solo fortunati. H1N1, SARS, MERS, Hendra, Ebola, hanno mietuto vittime e lockdown, ma semplicemente non le abbiamo mai considerare abbastanza vicine per occuparcene. Più che parole, erano echi. Eppure la SARS nel 2003 ha raggiunto 29 Paesi su cinque continenti, con più di 8mila casi e 774 morti, e un tasso di mortalità del 9,6 per cento. Anche in quel caso gli effetti per il turismo sono stati devastanti, ma siccome è stata la zona asiatica a essere la più colpita, non ci abbiamo fatto così caso. Come ho scritto a inizio marzo, secondo il World Travel & Tourism Council, che ha analizzato 90 momenti di crisi tra il 2001 e il 2018, il settore turistico è tra i più resilienti. E se nel 2001, anno dell’attacco alle Torri Gemelle, ci abbiamo impiegato 26 mesi per tornare alla “normalità”, nel 2018 ne sono bastati 10. In particolare, le epidemie richiedono in genere 19,4 mesi di assestamento. Sono i mesi in cui i nostri modi di raccontare il mondo cambiano. In cui le parole intorno al viaggio, al turismo, si plasmano e si rimodulano secondo sensi e bisogni nuovi.
Più volte è stato detto che per quello che è successo in questi ultimi mesi non abbiamo un metro di paragone. Mai avevamo vissuto un lockdown, mai ci era stato proibito di incontrare, vedere, toccare i nostri affetti più cari. Il distanziamento fisico e sociale ha tracciato netti confini intorno al nostro corpo e, ancora oggi, rafforziamo questo muro tra noi e gli altri con uno scudo fatto di guanti, mascherine, centimetri, parole. Sono i segni della “paura”. Perché, come ogni linguaggio, insieme alle parole ci sono i gesti. E se il viaggio si alimenta di desiderio – desiderio di partire, incontrare, vedere luoghi nuovi-, la paura invece spegne ogni desiderio. Non a caso, nell’Alfabeto Pandemico creato dallo Stato del Luoghi alla parola Viaggio si legge, secondo la nuova definizione della CEO di Destination Makers Emma Taveri: “Dal Dove al Perché. Non luoghi, ma motivazioni, annotate su una lista dei desideri infinita e densa di speranza. Sognando una nuova vita possibile, progettata e immaginata senza confini di tempo e di spazio. ……. Perché viaggi, nuovo Io?… Ripartenza più che partenza, perché ci siamo dovuti perdere in una sedentarietà pandemica per ritrovarci in una mobilità più consapevole”. Il “nuovo viaggio” insomma deve recuperare quelle motivazioni (desideri) spente dalla paura.
È possibile che ci muoveremo per ritrovare la voglia di vivere, ma è indubbio che la sottotrama contenga molte paure e che di conseguenza abbiamo bisogno di rassicurazioni. Parole come sedentarietà, distanza, lontananza, incontro, tempo libero, uscita, domestico, estraneo… non bastano più per sé stesse. Devono essere specificate, che lasciate così, “sospese”, rischiano di tirarsi dietro un carico di ansia pregressa. Non è un caso che tutte le ricerche dicano che all’albergo si preferisce la casa vacanza, che lo spazio silenzioso della montagna è preferito all’estranea vicinanza delle spiagge, che al lontano si preferisce la prossimità, l’auto propria all’aereo. Le parole che oggi mettiamo più in relazione con l’idea di vacanza sono libertà, spazio aperto, sicurezza, salute, normalità, speranza, rinascita. Ma cosa, quali parole, in questo tempo in cui abbiamo scoperto la fragilità, ci possono dare di nuovo le certezze di cui abbiamo bisogno? È a questo stato emotivo che chi lavora nel turismo deve rispondere. Appena è stato dato un segnale di riapertura, i comunicati stampa sono stati centinaia. Alberghi che garantiscono la personalizzazione assoluta, pranzi all’aperto, sistemazioni indipendenti. Alcune strutture promettono agli ospiti anche il test sierologico, indicano con estrema precisione i protocolli (di solito più rigorosi di quelli istituzionali). La parola più ricorrente è sanificazione (e tutte le volte mi vengono in mente le mani sante del signore che mi porge pane e panelle a ‘Vucciria…). Mi verrebbe da dire, ve la ricordate la vacanza esperienziale, le guide local? Parole che ormai sono solo un’eco e se mai, prima di tutto “safe”, “covid free”, “come a casa”. È così che la meta del viaggio, bel lungi dall’essere esotica, diventa una sorta di “area protetta”.
La parole d’altra parte servono per esorcizzare la paura. All’inizio ci abbiamo provato cantando dai balconi e con tonnellate di slogan retorici, ma alla lunga, la realtà si è mostrata per quella che è. Ed è questo il punto. Anche la realtà offre parole interessanti. Parole che possono essere quelle giuste al momento giusto per parlare con il pubblico e per creare con esso una relazione intelligente. Nessuno sa ancora quello che succederà. Manterremmo la consapevolezza dell’effetto disastroso del nostro impatto ambientale che si è materializzata davanti quando abbiamo visto gli animali riprendersi il loro habitat o i fiumi e le coste ritornare nelle loro naturali trasparenze? Sapremo davvero rallentare il tempo, prenderci ogni istante per goderci contatti e relazioni umane rispettose e autentiche? Navighiamo a vista, e l’unica cosa che possiamo fare è prendere tutte le precauzioni possibili per prepararci al meglio che certo, “se non sei preparato, preparati a fallire”. Questa incertezza radicale cioè non deve impedirci di scegliere le parole giuste e per quello che mi riguarda le parole giuste sono quelle che hanno dentro il rispetto intelligente del prossimo e del presente.
Fin dall’inizio mi è parso in effetti che un racconto lastricato di buone intenzioni e solidarietà correva il rischio di mostrarsi per quello che era: una messa in scena fittizia. Nascondersi dietro slogan speranzosi infarciti di ottimismo tossico non è utile. Se è vero che questo è un evento senza precedenti e che non era facile scegliere le parole giuste, è altresì vero che ci sono modi, e posture, più rispettose e intelligenti di altre per impostare un dialogo nella situazione attuale. Una situazione che è di tutti e infatti mettere in atto delle azioni collettive (come hanno fatto per esempio i titolari di palestre che mai prima si erano riuniti sotto un’unica sigla o categoria), può essere un inizio per imbastire, e mostrare concretamente, un racconto basato su valori e sensi comuni; un racconto che possa servire a introdurre una “nuova normalità”, rassicurante sì, e basata su una rifondazione solidale (ripartenza). In casi rari, ma ci sono, alcuni hanno scelto la loro posizione per essere una voce autorevole e fonte attendibile di supporto per chi decide di viaggiare. Anche in questo caso, parole e postura giuste, rispettose e intelligenti della situazione attuale, hanno permesso di condividere (con ospiti ma anche con competitor) nuove parole quotidiane: protocolli, indicazioni, suggerimenti, soluzioni, opportunità, servizi nuovi, innovazioni, regole gentili …
Molti studi dicono che per radicare un’abitudine servono circa due mesi. Due mesi, quelli del nostro lockdown, in cui abbiamo assimilato nuove pratiche igieniche, nuovi modi di salutarci, nuovi modi di avvicinarci, di pensare ai nostri spazi domestici (e quindi di vacanza e di mobilità). Capire questo, inglobare questi nuovi comportamenti e lessici nel dialogo, arricchendoli di condivisione e consapevolezza e depurandoli dalla paura, potrebbe essere la giusta via. Anche il termine “nuova normalità” sembra ora riscuotere un nuovo successo. Io avverto sempre un rischio sulla parola “normalità”, che alla fine ognuno ha la sua, e il pericolo dell’omologazione è sempre in agguato. Nella condivisione, nella pratica collettiva, nelle normalizzazione, infatti, non bisogna perdere la propria identità. È una cosa che è capitata a tutti, ché quando arriva un terremoto che scuote fino alle fondamenta ti chiedi: “È giusto quello che ho fatto o sto facendo? Qual è il senso? Quanto sono davvero importanti le mie azioni?”. Vale per le aziende e per chi come me, giornalista, cerca di comunicare. Eppure, se prima regalavi sogni, eri il mago del relax o delle scalate, se invitavi all’avventura o al divertimento, dovresti trovare il modo, e le parole, per continuare a farlo. Quando l’Islanda mi dice che aprirà i confini il 15 giugno e che contestualmente al mio arrivo mi offre un test per evitarmi la quarantena (forse), non è che la vedo meno bella. Non bisogna aver paura della realtà. Non si può prescindere dalla realtà. E delle sue parole.
Questa è d’altra parte la realtà che abbiamo. Non è la migliore, non è certo quella a cui eravamo abituati o quella che avremmo desiderato, ma è quella che condividiamo tutti. È il nostro senso comune presente. Senza retorica, senza ottimismo tossico, ma con molta intelligenza e adultità, dovremmo semplicemente ammettere che si tratta di una condizione di umanità piena di dignità e che merita tutto il nostro rispetto. Cominciamo da qui.