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Tutti i (nuovi) sapori del Parmigiano

C’era una volta il nostro formaggio quotidiano, il Parmigiano Reggiano. E c’è ancora, pure in ottima salute, come conferma la crescita continua del numero forme prodotte (tre milioni 650 mila nell’ultimo anno), ma pare che la Dop non basti più. Nel 2017, ben seicentomila forme rispetto allo zero dell’anno precedente, avevano infatti una certificazione in più: Halal, Kosher, Millesimato (si utilizza cioè solo il latte di mucche che hanno partorito da meno di cento giorni), di Vacca Rossa o Bruna Alpina, di Montagna o Omega3… Come dire che il Parmigiano resta uno dei migliori formaggi al mondo, e l’incetta di medaglie all’ultimo World Cheese Awards di Londra (38, di cui 11 d’oro, 16 d’argento, 8 di bronzo e 3 Super Gold) ne è la conferma, ma oggi è la sua biodiversità, che gli consente di andare oltre la produzione tradizionale fatta con il latte di bovine di razza Frisona, a essere sotto osservazione. «Il disciplinare garantisce le peculiarità di base, ma in un contesto socio economico con consumatori sempre più attenti ed esigenti, i caseifici possono proporsi con una propria identità» dice il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano Nicola Bertinelli.

«La prima biodiversità resta la stagionatura», continua Bertinelli. Ché nessun formaggio riesce a sostenere maturazioni di così lunga durata. Si parte dai 12 mesi, poi 24 (il caseificio Quattro Madonne di Lesignana si è aggiudicato la medaglia Supergold a Londra per questa stagionatura), quindi 36, fino a 48 e oltre…. Maturano solo le forme migliori, quelle che al primo anno superano l’esame dei battitori del Consorzio che non “sentono” nei rintocchi del martello crepe o bolle d’aria all’interno. Alcuni, come il caseificio del Consorzio Vacche Rosse, a 24 mesi le passano ai raggi X, altri chiedono battiture extra al secondo e al settimo anno. Succede al caseificio Bonat di Basilicanova, che l’anno scorso ha tagliato una forma di diciotto anni e che tra i clienti vanta nomi come Aimo Moroni (che l’ha “scoperto”) e Laurent Dubois, miglior affinatore di Francia (che lo ha scelto come fornitore alla sola visita della stalla): «Abbiamo cominciato ventuno anni fa provando a lasciare le forme a stagionare per anni. Tutto dipende dalla materia prima usata: più che un caseificio noi siamo un’azienda agricola e le nostre mucche sono nutrite solo con erbe coltivate ed essiccate da noi: controlliamo tutta la filiera. Questo consente di ottenere un prodotto dolce anche a maturazioni altissime» dice Gianluca Bonati.

Le stagionature record non rendono di per sé il formaggio migliore, anche se, come racconta Antonietta Serra dell’azienda Valserena: «Oggi un Parmigiano di molti mesi viene percepito come più pregiato, quasi d’élite. È vero che la lunga maturazione richiede più cure, con le forme girate tutte le settimane, spazzolate e pulite, ma alla fine è il latte a fare la differenza». Quello della Valserena per esempio, proviene dalle vacche Bruna Alpina – allevate in alta quota e alimentate solo con foraggi senza OGM – ed è più ricco in proteine e caseina rispetto a quello munto dalle bovine di Frisona, tanto che per una forma ne servono solo 470 litri contro i classici 520. Il Parmigiano originario invece è quello fatto con il latte delle Vacche Rosse reggiane, usato dai monaci benedettini otto secoli fa. Negli anni Ottanta ne erano rimaste solo 300 capi, ma oggi, grazie alla lungimiranza di un gruppo di allevatori, sono circa tre mila e 500 e il Parmigiano Vacche Rosse, ovvero prodotto solo con latte di bovina rossa in purezza, è tornato sulla tavola degli intenditori. Solo più di cento essenze in estate e primavera tra erbe verdi e aromi, e cereali rigorosamente no OGM in inverno, per un latte che finisce in 14mila forme l’anno dal profumo intenso e un gusto rotondo anche grazie a una particolare variante della caseina presente nella materia prima.

«Il legame con il territorio è il cuore della produzione del Parmigiano» conclude Bertinelli, «Pochi sanno che il 20 per cento della produzione nazionale è in zone montane preservando l’Appennino dall’abbandono, ecco perché il Progetto Qualità Prodotto di Montagna che il consorzio ha da poco avviato ha un valore sociale». Per avere il marchio dalle vette blu, produzione di latte e foraggio, stagionatura minima, lavorazione, devono avvenire in montagna. E c’è da star sicuri che i consumatori andranno a cercare anche quelle.

Già pubblicato su Repubblica del 19 aprile 2018

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Manuela Mimosa Ravasio è una giornalista professionista con una formazione da architetto. Ha lavorato per anni come caporedattore scrivendo di società e attualità in riviste del gruppo RCS e tutt'ora firma per i maggiori quotidiani e settimanali nazionali. Oggi svolge la sua attività da libera professionista offrendo anche consulenze in comunicazione, progettazione di contenuti e strategie narrative, e formazione per la promozione di territori.

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