agricoltura di montagna, NUTRIMENTI
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Pane al pane

[Articolo pubblicato su Sette il 31 gennaio 2014]

Se mai ci sarà una rivoluzione del nostro modo di vivere, comincerà dal pane, come è sempre successo. In una stanza di poche decine di metri quadri a Fobello, un paesino di 140 abitanti in Val Mastallone, valle alterale della Valsesia, tra un forno, un piano di lavoro, i cesti di pani e i sacchi di farina stoccati, queste parole risuonano come una speranza. Eugenio Pol si è trasferito qui una decina di anni fa e, da allora, ha sempre cercato di fare un pane che profumasse di grano. Quel grano che scendeva freddo dalle macine a pietra e che nel pane moderno è stato annullato dall’aroma del saccharomyces cerevisiae: il lievito di birra. Eugenio Pol comincia a lavorare alle due del mattino e sta con il suo pane fino alla mezzanotte del giorno successivo. Non ha celle di lievitazione, ma una pasta madre che ha ottenuto con il 50 per cento di monococco – lo stesso tipo di cereale trovato nello stomaco di Oetzi per intenderci -, e che venera un po’ come facevano gli Egizi quando, per caso, hanno scoperto che lasciando la farina all’umidità delle rive del Nilo, si rigonfiava. Pol fa 500 chili di pane la settimana e il lunedì e giovedì va fino a Vigliano Biellese per spedirlo a ristoratori e negozi bio del nord Italia. Nel poco tempo libero che gli rimane, va a pescare: «Rigorosamente con la mosca fatta da me con la seta», dice. I suoi estimatori affermano che lui “è” il Pane. C’è chi assaggiando il frutto del suo lavoro si è convertito alla panificazione a fermentazione naturale, chi sentendone solo parlare è andato in giro per mulini a riscoprire i grani antichi, chi ha deciso di rivoluzionare l’azienda di famiglia per tornare a fare pane come una volta. Come lo fa lui. Lui che, con tutta l’umiltà degli artigiani, sostiene invece che, in fondo, non fa nulla di strano. Che il merito è di aria e acqua quasi incontaminate, mentre le sue mani, per giunta, sono capaci di fare solo due forme: lungo o rotondo. Eppure, il suo pane, che dura due settimane perché «il pane fresco tutti i giorni è un’altra stramberia moderna», è il risultato di una sensibilità straordinaria che gli consente di assecondare la farina, intuire i tempi di panificazione, fiutare l’effetto del tempo e dell’umidità: «Che ci si creda o meno, certe cose avvengono quasi per magia».

Altre invece, per quel pizzico di follia tipico di chi persegue il proprio sogno con giovanile ostinazione. Dalla Valsesia al cuore della Sicilia, ecco Maurizio Spinello, 36 anni. Ha cominciato a mescolare acqua e farina perché voleva un lavoro che gli permettesse di stare nella sua terra, un borgo costruito nel 1920 dal barone Ignazio La Lumia per i contadini del suo feudo, a pochi chilometri da Caltanissetta, e che oggi conta poche decine di abitanti. «Se ne sono andati tutti», dice Maurizio, «ma io sono rimasto». E nella vecchia stalla dove suo padre teneva le mucche ha costruito il suo regno. Comincia a impastare verso le quattro del pomeriggio, proprio come faceva la madre quando preparava il pane da vendere ai turisti di passaggio, poi lo lascia lievitare sei ore con la pasta madre che ha ereditato dalla nonna, quindi cuoce tutto in un forno di pietra e mattoni di terracotta utilizzando solo legno di mandorlo e ulivo. È il profumo del pane di casa, quello che, secondo Filippo Drago dei Molini del Ponte di Castelvetrano, hanno salvato i panificatori amatoriali, le donne che lo fanno ancora tra le mura domestiche e i retro-innovatori dell’arte bianca che, come Spinello o Pol, hanno recuperato il senso autentico del nostro pane quotidiano: il valore agricolo.

Dei grani di Filippo Drago si serve anche Davide Longoni. La sua non è una storia di eremitaggio bucolico, ma di un laureato in lettere con master in comunicazione che smette di vendere servizi fotogiornalistici per l’agenzia Contrasto e, dopo aver assaggiato il pane di Pol e conosciuto il mugnaio Renzo Sobrino, per sei mesi ha fatto il pane in casa regalandolo agli amici, poi ha aperto un forno a Monza, un negozio a Milano e ora un laboratorio a Rozzano all’interno della Cascina sant’Alberto dove produrrà e venderà pane fatto con i grani della cascina stessa. «Mai, come in questi anni, ho incontrato persone con formazione superiore che hanno scelto un lavoro artigianale. Oggi il panettiere non è più un recluso, ma una persona che può fare qualcosa di cui controlla l’intera filiera, dalla coltivazione del grano al pane finito. E anche se ci sono le notti, ci sono anche i frigoriferi che controllano i tempi di fermentazione, e tutto è più rilassato. A me bastano poche farine – il farro, la segale o i grani antichi che si coltivano all’azienda Triulza -, una lavorazione semplice, e una solida collaborazione con quei mulini italiani che hanno salvato il rapporto tra agricoltori e panettieri». Perché questo è il punto, il pane buono è possibile dove c’è buona agricoltura. In Francia, Nicolas Supiot, un paio di anni fa ha cominciato a coltivare cereali ai confini della foresta di Brocéliande, in Bretagna, dando il via al movimento dei paysan boulanger: contadini panificatori che fanno pane cotto a legna certificando dalle essenze usate per il fuoco, al grano e alle tecniche di macinatura. «Io faccio il pane che sono», ama ripetere Supiot, che dice che toccare la farina con le mani ha un’influenza spirituale, e che tutti, in fondo, dovremmo fare solo un pane “portatore di senso”. In Italia, un vero movimento non c’è, ma l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, dopo avere formato per anni comunicatori e manager del food, dal 2013 organizza master per artigiani del cibo come birrai, casari e panificatori. Gente che mette le mani in pasta, che dopo lauree e dottorati si è chiusa dentro un forno solo per studiare il lavoro della pasta madre. Gente come Antonio Lamberto Martino, 30 anni: «Quando mi sono presentato alla porta del forno dell’Antico pane a legna di Monteriggioni, a Siena, Luciano mi ha accolto senza chiedermi nulla. Ho dormito lì per due mesi. Notti intere in una stanza in cui tutto è rimasto come negli anni Venti e in cui si impastano, a mano, 300 chili di pane ogni giorno. Braccio a braccio. Poche parole e lunghe attese. Sfiorandosi quando si controlla la lievitazione o si assaggia, come da bambini, l’impasto crudo». Martino, siciliano di Capo d’Orlando, è – come dice lui – figlio di panai. A 28 anni scopre di avere il morbo di Crohn e, da agronomo, si mette a studiare i grani antichi locali. Quelli che hanno basse quantità di glutine e che per essere impastati hanno bisogno di una manualità particolare. Manualità che i panificatori moderni, abituati ormai alle farine ad alta prestazione ricche di glutine, nonché alla potenza del lievito di birra, hanno perso. Così, l’anno scorso Martino ha aperto a Siena un laboratorio di panificazione, Laboratorio in Corso, in cui insegna l’antica tecnica dell’impasto e dell’uso della pasta madre. Ma appunto, la pasta madre, è solo una parte della catena. Il vero maestro del pane, il paisan boulanger, ne segue tutta la filiera. E, come nel caso di Carlo Eugenio Fiorani, pur di essere sicuro di avere una materia prima di qualità, si mette a coltivarla da solo. «Volevo fare qualcosa che restituisse dignità al lavoro agricolo e ai suoi prodotti. Volevo mangiare nuovamente del buon pane, quello che non dura un giorno e che profuma di lievito di birra perché le farine usate sono state completamente denaturate». Voleva, e c’è riuscito, visto che da qualche mese nella sua cascina di Cremona produce il pane con il suo frumento Bologna e il grano duro. A insegnarli l’antica tecnica di panificazione è stato un altro maestro, Massimo Grazioli. «Partivo alla una e mezzo di notte da Cremona con il mio sacco di farina e andavo nel suo forno di Legnano a impastare. Poi tornavo e cominciavo a distribuire il mio pane in giro per farmi conoscere. Mi ha insegnato tutto senza chiedermi nulla, perché come il pane, anche questo sapere antico si divide». Il segreto artigiano da custodire gelosamente, di fatto non esiste più: la tecnologia è arrivata a un punto tale di sofisticazione che la cosa più difficile è in realtà tornare a lavorare in modo semplice e naturale. Con farine che cambiano ogni anno e impasti che reagiscono diversamente secondo giorni e stagioni. È il recupero di un’antica sensibilità che ancora troppo pochi, in Italia, stanno cercando di diffondere. «Dopo 40 anni passati nei forni, ho ritrovato una nuova voglia di fare pane riscoprendo l’antico modo di panificare e so solo che più persone seguiranno questa filosofia, meglio sarà per tutti», dice Grazioli. Il pane è generoso per natura. E d’altra parte, come insegna Eugenio Pol: «Che cosa sei venuto a fare qui, se non per provare a fare qualcosa di buono per gli altri esseri umani e per la Terra?».

Con un grazie particolare agli agricoltori, che la terra è bassa, e a lavorarla, si fa fatica. Quella vera.

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