Ho conosciuto il pane di Katia un anno fa a Cogne. Era sistemato dentro ceste di vimini in un mercatino alimentare vicino alla chiesa e profumava. Pensavo fosse l’uvetta, o i fichi, che ogni tanto mescola all’impasto. E invece erano le farine. Dicevo: «Vado a comprare il pane della ragazza», ché di artigiani panificatori se ne parla da tempo e di solito sono tutti maschi. Però quest’anno mi sono presa un po’ di tempo per sedermi con lei su una panchina, dopo che era andata a fare una passeggiata in Valnontey, e conoscere la storia dietro questo pane, anche se, è vero, in certo senso parla già da solo. Pane al pane.
«Ho cominciato a panificare con pasta madre con mio marito quindici anni fa, in casa. Nel 2014 invece abbiamo aperto il forno a legna, il laboratorio e cominciato a fare mercati. Dopo due anni, abbiamo iniziato a coltivare i nostri grani, e da questo autunno avremo anche un nostro mulino, così la filiera sarà completa», mi dice Katia Massari. Il pane di filiera, così si chiama anche quando viene premiato da guide blasonate, è una grazia per palato e territorio. Le terre alte delle Goilles, dove Katia e Paolo, a 1500 metri slm, hanno i loro due ettari di campi coltivati a segale locale, farro monococco, e una miscela evolutiva di grani antichi che maturano tutti insieme, è un costone esposto al sole, tra la Valtournenche e il colle di Verrayes, un tempo considerato il granaio della Val d’Aosta. Niente turismo, solo acque pure e un’antica vocazione agricola. «A coltivare cereali ci siamo noi e ora sta cominciando, più in basso, un altro ragazzo. La maggior parte dei residenti lavora ad Aosta o negli alpeggi, e gli altri preferiscono destinare le terre per il fieno. Non è facile fare qualcosa di diverso, ma per noi fare il pane è stata una scelta di vita. Un modo per fare qualcosa insieme, in famiglia, chiudendo un ciclo che parte e torna dalla terra».
La difficoltà di cui parla Katia non è solo culturale. Mettere in moto una nuova attività nel nostro Paese, tra burocrazia e assoluta mancanza di sostegno da parte di amministrazioni locali o istituzioni, è spesso una corsa a ostacoli. «Quando abbiamo iniziato a lavorare la terra ci hanno aiutato degli amici. Non avevamo attrezzi, per girare la terra e seminare: ce li hanno prestati. Poi li abbiamo acquistati, ma di seconda mano e così non abbiamo avuto accesso ai finanziamenti. Non importa, in due anni siamo rientrati dell’investimento e nel frattempo ci siamo messi in rete con persone che, come noi, hanno cura delle stesse cose». Quelle persone di cui parla Katia sono gli uomini e le donne del collettivo La Terra che ride . Giovani agricoltori di montagna, che offrono i loro prodotti nei mercatini locali. Il mercoledì a Cogne, il venerdì pomeriggio negli Orti di Sant’Orso ad Aosta, il sabato mattina a Gressoney negli orti di Paysage à Manger (ne avevo già parlato qua e qua).
«È ancora una vendita legata alle stagioni, visto che in estate con il turismo va molto bene e panifichiamo anche due volte la settimana, mentre in inverno serviamo solo qualche negozio ad Aosta. Certo in autunno si semina per poi raccogliere tra metà e fine agosto, ma Paolo (il marito, ndr) ha anche un secondo lavoro: l’insegnante di scuola media». Il fatto è che ci vuole il palato, e la cultura, per capire un pane così. Katia dice che gli anziani lo capiscono subito, riconoscendo il sapore del “pane vero”, mentre i giovani, a volte, abituati a farine super raffinate, non riescono ad apprezzarlo. «Si vede che io sono tra i primi, gli anziani», le dico ridendo, «perché il pane di segale è ormai una droga e senza quello con l’uva sultanina non faccio colazione! «È un prodotto che va capito. Ma i mercatini si fanno anche per questo: per spiegare agli scettici che non capiscono perché il mio pane non costa meno di 6 euro al chilo, quando al mercato magari lo trovi anche a 2, che il nostro lavoro, e il nostro pane, è differente. Si conserva una settimana, per cominciare, e ha sprechi zero, ché se avanza puoi farne crostini o pan grattato. So da dove viene e come è stata macinata la mia farina, come sono coltivati i miei grani… Basta mangiarlo per accorgersi della digeribilità, oltre che al gusto. Non tutti capiscono, ma spero solo che qualcuno, quando trova un prodotto che costa così poco, troppo poco, cominci a chiedersi chi non è stato pagato per fare qual lavoro, in che modo si è riusciti a realizzare quel “risparmio”». Che, come si dice, il pane ha sempre racchiuso in sé un manifesto politico. Che ogni rivoluzione, in fondo, è sempre cominciata dal pane.
L’Agriforno delle Goilles è a Verrayes, laterradelpane@gmail.com