[Pubblicato su Sette/CorrieredellaSera del 9 ottobre 2015] Solchi, pianori, rami stagliati sui campi, casolari. Bianchi e neri abbaglianti. Si dice che Mario Giacomelli, “inventore” del paesaggio delle Marche, per mappare la trasformazione della sua terra, il mutare delle coltivazioni, delle opere agricole, tornasse nei luoghi che fotografava più volte. A lui interessavano “i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra”. I segni del tempo e del lavoro, insomma, e i filari di vite, nelle sue vedute aeree, erano tra questi. Lasciati ancora oggi dalle 14 mila e 190 aziende vitivinicole che disegnano 17 mila e 400 ettari, ogni anno sempre di più. Ed è dal disegno di questo paesaggio che arriva il vino bianco italiano più premiato dalle guide, il Verdicchio, con 18 milioni di bottiglie commercializzate nel mondo. «Come vitigno autoctono per eccellenza, il Verdicchio è il nostro ambasciatore» dice l’enologo Alberto Mazzoni, direttore dell’Istituto Marchigiano di Tutela Vini. «È l’unico bianco che sfida il tempo, che dopo 20 anni fa sentire ancora la sua eleganza. E, come nessun altro, porta mare e roccia nel bicchiere: il mare della zona dei Castelli di Jesi, e il calcare delle montagne di Matelica, nella valle del fiume Esimio». Sono più di 150 le aziende che imbottigliano Verdicchio, dal piccolo produttore Km zero fino a Villa Bucci, il più antico, il più famoso, il più premiato. Ma accanto al re dei vigneti, ci sono i vecchi vitigni riscoperti e rivalutati. È il caso del Ribona o Maceratino coltivato solo nei colli di Macerata: «Ora se ne fanno 40 mila bottiglie, ma presto raddoppieranno» dice Mazzoni. Dell’Aleatico autoctono di Pesaro e Urbino con cui si produce la Pergola Doc, lì nello stesso fazzoletto di terra in cui furono ritrovati i famosi bronzi dorati da Cartoceto. Della Vernaccia di Serrapetrona: «Sette produttori arrampicati sotto la montagna che fanno l’unico spumante rosso con tre fermentazioni» conclude Mazzoni.
Le Marche sono però anche la casa di uno dei prodotti più pregiati, e unici, con cui l’Italia si presenta alla tavola del mondo: il tartufo bianco. «Andare a tartufi è una condanna, passi tra spini e rovi, attraversi canali pieni di fango e acqua, zone impervie frequentate solo da cinghiali» dice Andrea Paleani, tartufaio e guida ecologica. Alla prossima Mostra di Sant’Angelo in Vado (i fine settimana dal 10 ottobre a fine novembre), sarà presente con una cantinetta per degustazioni, ma soprattutto organizzerà simulazioni di cerca al tartufo con Lira, il suo bracco pointer. «Non prevedo una grande annata, senz’altro non come quella dell’anno passato quando ho trovato un tartufo di 470 grammi». Con prezzi che volano fino ai quattro mila euro al chilo per un prodotto che, dice Paleani, nel dopoguerra era lasciato ai maiali e che ora, per alcuni, è una fonte di reddito. Per lui invece, il tartufo bianco, più pregiato del nero perché quasi impossibile da coltivare e amante dei terreni poveri e argillosi come quelli che si trovano tra Acqualagna e Piandimeleto, è soprattutto un bioindicatore, l’indizio di un ambiente sano, incontaminato.
Sarà per questo che le Marche, oltre ad aver quintuplicato in vent’anni il numero dei centenari, è al primo posto in Europa per longevità: si vive in media fino a 80,4 anni, persino più dei salutari svedesi. Lavoro nei campi (secondo Coldiretti il 66 per cento del territorio è gestito da imprese agricole) e piccoli borghi rinascimentali come Frontino, Isola del Piano, San Giorgio di Pesaro, San Lorenzo in Campo, Filottrano, Morro d’Alba, Sassoferrato e Senigallia… con tradizioni gelosamente custodite. Anche se questo significa contravvenire alle regole. «Io l’ho chiamato vissuscolo, altri villanello o morbidone. Tutto per continuare a fare il ciauscolo come lo faceva mio nonno, il Sante Calabrò, aspettando i primi freddi perché siamo senza celle frigorifere, utilizzando tutte le rifilature del maiale, senza conservanti e solo con sale, pepe, aglio e vino bianco», dice Giorgio Calabrò, da quattro generazioni con la norcineria nella piazza di Visso. Insieme ad altri piccoli artigiani non fa parte del Consorzio di tutela del Ciauscolo IGP, e ora sta tentando di avere un riconoscimento Dop per il Ciauscolo Tradizionale Maceratese. «Il “nostro” contiene il 60 per cento grasso e resta spalmabile anche dopo tre mesi. Certo, se li si lascia all’aria, la prima fetta non rimane rossa, ma questo è naturale…», conclude Calabrò.
Unico nome invece per il salame di Fabriano. Magrissimo, perché ottenuto solo con coscia e fiocco di spalla del maiale della Marca (il lardello dal dorso è del dieci per cento), si produce da San Martino a fine marzo. E, pur facendo parte del Presidio, anche qui qualcuno che fa le cose “alla vecchia maniera” c’è. «Alcuni pezzi li metto sotto cenere per mantenerli più a lungo, mentre per terra, nella cantina della stagionatura, butto il vino rosso per trasferire il profumo» racconta Sandro Gioia. Nella sua azienda biologica nella campagna di Fabriano, alleva 70 maiali e 70 bovini di razza marchigiana, producendo anche i cereali per alimentarli. «Alla fine comunque, sono solo quattro i quintali l’anno di salame venduti in azienda o alla Bottega Re Formaggio di Antonio Budano ad Ancona». Della tradizione del famoso brodetto di pesce, il piatto simbolo delle Marche, se ne occupa invece la Confraternita del Brodetto. Che non è uno solo, per altro, ma quattro o cinque, con la storia comune di essere un piatto che i pescatori componevano con il pescato non venduto. «Canocchia, gattuccio, mazzola, rana pescatrice, scorfano, tracina, pesce san Pietro e pesce prete» dice Valentino Valentini, presidente della Confraternita. «E niente pomodori freschi, ma conserva, perché, stando in mare per giorni, certo non si potevano portare verdure fresche. O prezzemolo e vino, se mai aceto».
Questa la ricetta antica che pure non si trova descritta che nei primi del Novecento nella Maria Risorta, un romanzo marinaro. Certe, e datate, le origini della casciotta di Urbino. Amata, si narra, da Michelangelo, papa Clemente XIV, e dai duchi di Montefeltro, che per mantenerne la qualità impedirono alle pecore maremmane di mescolarsi alle locali, è citata già dal 1545 nel Commento alle Costituzioni del Ducato di Urbino di Solone di Campello. Ancora oggi si fa mescolando il 70 per cento di latte ovino e 30 di vaccino, facendo pascolare gli animali tra graminacee e leguminose, e, una volta asciugata, salando la forma alternando salamoia e a secco. Quello che non c’è più sono i vecchi stampi in terracotta, ceramica o vimini. Oggi sono in plastica. È il prezzo della modernità.