[Intervista pubblicata su Sette/CorrieredellaSera] Un lavoro di ricerca durato più di cinque anni e iniziato quando l’Expo era solo un pensiero, attingendo dagli archivi di Stato, vescovili e privati. E perquisendo, scortato da due archiviste, tra fondi e collezioni, documenti e stampe antichi, molti dei quali precedenti il Quattrocento, per andare alle origini delle cucine locali su cui si è costruito il culto della tavola italiana. Stefano Pronti, storico e critico d’arte piacentino, ex direttore di Palazzo Farnese e del teatro di Piacenza, ammette apertamente di non amare quella creatività che nell’ultimo Novecento ha deviato la tradizione gastronomica del Bel Paese. In casa sua, la moglie, cuoca sublime, cucina ancora la Lingua di bue allo scarlatto alla maniera di Ada Boni, l’unica che ricorda quella che si mangiava negli anni Cinquanta, quando i macellai giravano la lingua nel salnitro per sei, sette giorni, fino a farla diventare, appunto, scarlatta: «Questo è un tipo di cucina che abbiamo perso in modo irrecuperabile», dice. La cucina a Piacenza, in Italia e nei secoli, il libro che raccoglie i risultati delle ricerche, uscirà ad aprile e avrà un’edizione ridotta in inglese a beneficio di chi arriverà in occasione della manifestazione milanese.
Nella prefazione del libro, Giovanni Ballarini, presidente dell’Accademia Italiana della Cucina, scrive che non è possibile comprendere ruolo e significato di una ricetta senza avere conoscenza della società che l’ha prodotto. È un principio che l’ha guidata anche nella sua ricerca? Per andare alle radici della cucina italiana ho dovuto considerare tutto quello che parlava di alimentazione. Dovevo sapere come venivano coltivati frutta e verdura, come arrivavano sul mercato, i prezzi, la fiscalità, la quantità di cibo importata ed esportata, gli acquisti che i cuochi delle famiglie nobili facevano di anno in anno e i loro menu. I documenti delle Congregazioni dell’Abbondanza, dell’Annona e della Sanità, presenti a Piacenza come in ogni città italiana, sono stati utilissimi. Sapere quante e quali botteghe o scorte alimentari sono presenti nel territorio permette di vedere l’evoluzione dei gusti alimentari. Ma ripercorrere la storia della nostra cucina attraverso trattati antichi significa anche capire che tutto ciò che oggi consideriamo moderno non è che una semplificazione di ciò che è avvenuto nei secoli: quando, nel Libro de Arte Coquinaria del Maestro Martino da Como, cuoco di quel Patriarca di Aquileia noto come cardinal Lucullo, si legge che i maccaroni, dopo aver arrotolato il foglio di pasta attorno un filo di ferro, dovevano essere sfilati e messi a seccare in agosto per farli durare due o tre anni; o che si devono accantonare le spezie per esaltare i sapori delle materie prime, capiamo che già alla metà dal Quattrocento quella concezione ultramoderna che ci rende ancora oggi insuperabili era presente.
Quando la cucina italiana diventa leader nel mondo? Tra il Quattro e Cinquecento abbiamo prodotto una letteratura che non conosce pari in Europa tanto che, nel ‘700, un’enciclopedista francese afferma ancora che “gli italiani hanno risanato tutta l’Europa e sono loro, senza dubbio, che ci hanno insegnato a cucinare”. In realtà i cuochi al seguito di Caterina de Medici, che nel 1533 sposò Enrico II, non determinarono una dominazione sulla cucina francese, ma certo la arricchirono; e del resto, loro avevano tradotto il De honesta voluptate et valetudine del Plàtina nel 1505, e soprattutto avevano due fantastiche banche dati, la biblioteca angioina di Napoli e la viscontea sforzesca di Milano che rispettivamente Carlo VIII e Luigi XII avevano furbescamente sequestrato e che tuttora costituiscono il fondo più prestigioso della Biblioteca Nazionale di Parigi.
Il suo percorso a ritroso nella cucina però, parte da molto prima, ancor prima delle ricette di Marco Gavio Apicio: parte dai trattati di agricoltura di Catone e Varrone… C’è un sapere integrato alla base della nostra cucina che comprende conoscenze agricole, gastronomiche e terapeutiche. Verso il 167 a.C., con la sua De re rustica, Marco Porcio Catone ci dice sì come impostare l’agricoltura, ma in funzione dell’alimentazione; ci dice come sezionare la carne, come si fa il vino, come si conserva la coscia del maiale con il sale… in pratica l’attuale prosciutto crudo! Tutte queste nozioni, spesso composte per l’alta società romana, divennero tradizione e approdarono al Medioevo, tanto che quando Pietro de’ Crescenzi, autore del Liber ruralium commodorum, passa in rassegna tutte le verdure, di mese in mese, e scrive come cucinarle o accompagnarle insistendo sui benefici per la salute, non si inventa nulla di nuovo. Se mai, colpisce la varietà dei vegetali coltivati nell’orto medioevale di cui si è persa gran parte della conoscenza e la cui sopravvivenza è rimasta solo nel laboratorio dell’erborista.
In tutto questo, il ruolo del cuoco, oggi star delle star, era marginale. Quando la figura del cuoco comincia a distinguersi? Fino al Settecento a dirigere il pranzo c’era lo scalco. Davanti la tavola stava il trinciante, un signore vestito di nero con fazzoletto sulla spalla che, attrezzato di forchette e coltelli, tagliava il cibo davanti al signore e poi lo serviva ai commensali, ma non prima che il cuoco assaggiasse…. Ma nell’Ottocento, la servitù si riduce molto, i piatti vengono serviti già porzionati e lo scalco diventa un lusso. Così, è la personalità dei cuochi a crescere. Da Francesco Leonardi, che inizia a parlare dell’importanza delle gastronomie locali, a Vincenzo Corrado, il “cuoco galante”.
Siamo ancora in una cucina dei nobili per i nobili, quindi. Passerà ancora tempo prima che la cultura gastronomica diventi per tutti e che compaiano le donne… Il termine economico compare con il Nuovo cuoco milanese di Giovanni Luraschi in cui i piatti quotidiani cominciano a essere commisurati al loro valore sonante. Si scrive chiaramente come dividere un chilo di manzo e farne l’arrosto con verdure, poi il lesso e quindi le polpette… Il napoletano Ippolito Cavalcanti da parte sua, raccogliendo per la prima volta le ricette di diverse classi sociali, dà la possibilità di cucinare con poca spesa e massimo sapore, dando il via a quella magia della cucina italiana, semplificata nei mezzi, ma azzeccata nei sapori, ancora oggi vincente. E con la borghesia che cresce, con sempre più domestiche e meno cuochi nelle case, ecco che compare anche la cuoca, la cuciniera. La cuoca di buon gusto con economia e pulizia di un anonimo torinese, pensata per i pranzi quotidiani di una famiglia comune, è una piccola rivoluzione. Ma è anche alle leggi sull’alimentazione che bisogna guardare: se nel 1824 in un verbale di polizia si legge dell’arresto di un macellaio per la vendita di carne di cavallo, nel 1870, sia a Milano che a Torino si dà la possibilità di macellare questa carne considerata povera, ma che i meno abbienti mangiavano già clandestinamente.
Una parte del suo libro è dedicata ai salumi piacentini. Una passione particolare? Se tra Piacenza e Parma ha potuto svilupparsi dall’età medioevale questa eccellenza è grazie alle miniere di sale fossile purissimo di Salsomaggiore e Salsominore al posto del sale marino. Io ho rintracciato la presenza della coppa già nel Seicento (la bondiola), coppa che in seguito risulta il prodotto più richiesto nel mercato, tanto che il cardinale Giulio Alberoni, tra il 1714 e il 1724, la porta insieme agli altri salumi piacentini alla corte di Madrid.
Infine, si arriva a Pellegrino Artusi e all’unità italiana attraverso il cibo. Quello che mi premeva raccontare è la continuità nei secoli, da Apicio all’Artusi, nella cucina nostro Paese. Anche nelle sue radici locali. Ma libri come quello di Cristoforo da Messisbugo, scalco alla corte estense, che poi influenzò i costumi, i modi di servire e stare a tavola, di tutte le corti europee, avevano già una valenza internazionale. Con Artusi, il ricettario, prima nobile e poi borghese, diventa popolare, e il suo grande merito storico è quello di aver preso le migliori ricette di ogni regione, di averle adattate e armonizzate con la pratica nella sua cucina, e di averle riscritte. Il suo crème caramel è tuttora insuperabile: mia moglie lo fa sempre.