Tra i miei “pensieri in salita”, spesso si parlerà di un’altra montagna. Di narrazione partecipata, di redazione di comunità, di ripensare un territorio partendo dall’ascolto. Il progetto sperimentale di narrazione e comunicazione partecipata del territorio L’Altra montagna – Le Dolomiti del Silenzio di Isoipse Impresa sociale, sviluppato insieme all’Università di Udine e alla Regione Friuli Venezia Giulia, nell’ambito della Convenzione con la Fondazione Dolomiti UNESCO, progetto che ha vinto ex aequo l’ultimo Lagazuoi Ideas Mountain Awards, risponde esattamente a questi criteri. Ed è per questo che ho chiesto a Valentina de Marchi, antropologa e film maker, di fare una chiacchierata con me.
Come nasce Isoipse?
Nasce da un gruppo di giovani appena laureati, architetti, sociologi, giornaliste, antropologhe, e tornati “a casa”, nella val Belluna, per cercare di mettere al servizio del territorio le proprie competenze ed evitare l’emorragia di giovani che di solito dalla montagna se ne vanno. L’idea era quella di fare progetti di valorizzazione territoriale nel contesto montano. Che poi è quello che abbiamo fatto dal 2014 nella montagna del Friuli Venezia Giulia anche se noi siamo “nati” a Belluno. Qualcuno di noi ha un secondo lavoro, ma in definitiva sono otto anni che resistiamo.
Mi piace molto quando la montagna non è associata al “cambio vita”, bensì al “porto la vita”. Ovvero scegliere di stare in territori così detti marginali, ma facendo lavori che non rispondono al solito cliché del “ritorno alla natura”…
La nostra è un’impresa che mette le sue radici “in” e per la “montagna”, ma l’idea che abbiamo di montagna è molto connessa con la pianura. Il vero fattore che fa la differenza è che tutti siamo originari di queste zone, tutti abbiamo fatto un’esperienza universitaria, anche all’estero, io per esempio ho lavorato anche in Kirghizistan e Tagikistan, e poi abbiamo deciso di investire qui il nostro capitale umano. Ci sentiamo dei mediatori della montagna, specialmente con gli interlocutori più “cittadini”, e questo perché la nostra visione parte dall’interno del territorio. Non a caso abbiamo scelto di chiamarci Isoipse, ovvero le curve di livello delle carte geografiche che aderiscono al territorio, a tutte le asperità e le pendenze del territorio. E che naturalmente sono anche in pianura, ma più rade.
Veniamo al progetto Dolomiti del Silenzio. Al centro c’è la narrazione, parola che soffre di un certo abuso. Come l’avete affrontata?
È vero, “narrazione” è una parola complessa. Nel vivo del progetto quello che cerchiamo di fare è metterci in una posizione di ascolto di chi abita queste montagne minori. Così abbiamo raccolto esperienze, punti di vista, testimonianze, scale di valori di chi le abita. Abbiamo organizzato tavoli di lavoro, momenti di cerchio per far emergere le tematiche predominanti (il silenzio è stata una delle prime emersa con forza per esempio), passeggiate con 15/20 persone nei luoghi dei paesi per riflessioni itineranti. L’obiettivo è sempre stato quello di dare visibilità all’altra faccia delle Dolomiti, quelle più nascoste, e di mostrare che le Dolomiti sono un patrimonio diffuso fatto non solo di paesaggio incantato, ma anche di cultura, lingua, dialetti usanze.
Qual è lo stato dell’arte del progetto?
Dopo il coinvolgimento delle comunità e la raccolta del patrimonio condiviso, abbiamo trasformato tutto in un prodotto della comunicazione, ovviamente con un taglio molto diverso dalla classica comunicazione per il turismo. Il che, in concreto significa pagine web, foto, spot audio, video, e quest’anno cartoline sonore (nell’immagine di apertura quella per Forni di Sotto). Sono cartoline classiche realizzate dal gruppo di musicisti e visual artist PAN dotate di un QR Code che rimanda a un montaggio audio con le voci degli abitanti e i suoni della natura in presa diretta. La cosa bella è che hai veramente l’impressione di essere là e parlare con gli abitanti del Paese. Saranno stampate e restituite agli abitanti, saranno alla mostra presso il Lagazuoi EXPO Dolomiti dal 4 giugno 2022 fino a marzo 2023, e grazie alla collaborazione con il PromoTurismo FVG, anche in allegato con il mensile del CAI Montagne360 in Lombardia, Veneto, Friuli.
E la risposta delle comunità al progetto?
Noi abbiamo lavorato finora in quattro paesi e, nonostante l’area sia circoscritta, le differenze sono forti. Forni di Sopra ha un contesto molto strutturato e uno sviluppo turistico già definito. Qui la comunità ha risposto molto bene, mentre forse le resistente sono state più da parte delle istituzioni che in generale trovano difficile abbandonare un certo modello di turismo. A Frisanco, in val Colvera, ci si percepisce invece ai margini delle Dolomiti, non si vedono le magnifiche Crode, ma si sta all’ombra del Monte Raut. Il turismo c’è stato fino a 30 anni fa, poi è diventato una sorta di rifugio per gli artisti che tutt’ora non vogliono che questa valle venga “invasa” da nuovi flussi turistici. A Forni di Sotto sembra esserci un nuovo slancio indirizzato in direzione di turismo sostenibile, grazie anche a un albergo diffuso che sta funzionando molto bene: qui la comunità ha risposto in modo molto positivo. Infine, Claut, con una vocazione turistica sicuramente in decadenza, ma un’identità molto forte e un’idea di sviluppo turistico precisa incentrata sulle attività outdoor.
Cosa avete imparato da questa esperienza?
Questo è stato un lavoro sperimentale. Lavorare con le comunità è complesso, ci siamo resi conto che si muovono grandi aspettative, ed è necessario procedere passo dopo passo, verificando le risposte e le azioni. Tuttavia siamo convinti che questo sia il modo più corretto di pensare allo sviluppo turistico nei territori più delicati e fragili. Coinvolgere la popolazione partendo dalla narrazione e nello stesso tempo cercare un’alleanza con l’amministrazione del territorio, altrimenti si rischia che il progetto non attecchisca. Quello che è certo, al di là delle ricadute in termini di sviluppo, è che dopo un simile percorso la comunità si sente più consapevole del patrimonio che abita. E questo non è poco.