Senza glutine. Senza lievito. Senza lattosio. Quella verso “la cucina del senza” sembra una vera e propria passione per gli italiani, tanto che nel 2018 il giro d’affari intorno ai prodotti free è arrivato a toccare i 3,3 miliardi di euro, quasi il 14 per cento del totale del food confezionato (dati Osservatorio Immagino Nielsen). Verrebbe quasi da proclamare un’emergenza nazionale se non che, a ben guardare i dati dell’ultimo Rapporto Eurispes Italia 2019, si scopre che più che intolleranti, siamo al solito un poco creduloni. Per esempio, su un quarto degli intervistati che acquista prodotti senza lattosio, poco più dell’8 ha una “vera” diagnosi di intolleranza. Lo stesso vale per il glutine (19 contro 6) e il lievito. In pratica, ci priviamo di apporto nutritivo senza una ragione scientifica, senza reale indicazione medica. Confondendo allergie con intolleranze e affidandoci a test con nessuna evidenza scientifica. E ora, il cambiamento di rotta definitivo sul binomio salute cibo. Quello che potrebbe finalmente frenare questo prolificare di decine di intolleranze alimentari e calmare questa bulimica ossessione.
Racconta l’allergologo e immunologo clinico Attilio Speciani nel suo Le intolleranze alimentari non esistono (LSWR edizioni), che nel 2015 alcuni ricercatori dell’Università di Helsinki proposero alle scuole un nuovo e semplificato “questionario per allergie e intolleranze alimentari”, che considerava solo diabete, le due uniche intolleranze scientificamente provate (glutine e lattosio), ed eventuali reazioni molto gravi. Solo tre domande che portarono a una forte riduzione del numero delle diete che la mensa doveva preparare, senza, come prevedibile, nessuna conseguenza per la salute. Basta d’altronde visitare una nostra, di mensa scolastica, recarsi al ristorante, o partire per un week end, per rendersi conto di quante volte ci viene chiesto se ci sono alimenti a cui siamo “intolleranti” in modo da eliminarli dalla nostra dieta… «Io stesso, quarant’anni anni fa, fui uno dei primi a parlare di “intolleranze alimentari”» dice Speciani, «Oggi però sappiamo, grazie a nuovi esami, che alla base di molti sintomi e disturbi finora spiegati con le “intolleranze”, c’è in realtà un’infiammazione correlata a ciò che mangiamo. Ma cosa più grave, è che questo atteggiamento ha portato a considerare il cibo un nemico da togliere dalla nostra tavola, quando è proprio l’eliminazione totale di un alimento a provocare un danno al nostro organismo».
In tempi di fake news, questo ripensamento sembra quanto mai appropriato, insieme alla richiesta di una maggiore attenzione verso test senza alcuna evidenza scientifica (dal dosaggio IGg4 ai test elettrici come il Vega test). «Bisogna essere consapevoli che misurare è meglio che supporre, e oggi possiamo misurare quelle citochine (BAFF e PAF) il cui innalzamento ci segnala la presenza di un’infiammazione correlata al cibo. In molte farmacie italiane poi, oggi si può fare il Flood Inflammation Test, con cui possiamo individuare il cibo specifico o il gruppo alimentare che mangiamo in eccesso. Perché il punto è proprio questo: non sono i singoli alimenti a dar fastidio, bensì la modalità ripetitiva con cui li assumiamo» precisa Speciani. Ed ecco allora che il primo modo per controllare questa infiammazione da cibo è modulare gli alimenti che ci danno fastidio attraverso una dieta di rotazione, prima stretta, ovvero con una o due giornate di pasti liberi, e poi più varia. Ma da cosa si riconosce uno stato infiammatorio correlato al cibo? «In genere, oltre i soliti disturbi che riguardano il tratto gastrointestinale, tutte le patologie che terminano in “ite”, dalla cistite all’artrite, sono una spia di uno stato infiammatorio. Ma anche in questo caso, è il ravvicinamento e la ripetizione dei sintomi che ci deve allarmare, non l’evento in sé», continua Speciani.
Di infiammazioni poi, oggi se ne individuano tre tipi. Quella che dipende dal tipo di alimento, quella causata da un cattivo bilanciamento tra proteine e carboidrati, e quella legata alla glicazione. Termine magico che sempre più dovremmo considerare se si vuole che il cibo lavori a vantaggio della nostra salute. «Il semplice valore della glicemia purtroppo non ci dice dei danni potenziali causati dai picchi di zucchero. Quando ne mangiamo troppo, specialmente fruttosio, si generano glicotossine che, come veleno cellulare, danno effetti simili quelli di un’allergia, ma che ora finalmente possiamo misurare con alcuni marcatori biologici», conclude l’immunologo milanese. La buona notizia è che in futuro altri esami e test ci permetteranno di conoscere ancora meglio il ruolo e gli effetti dello zucchero e non solo. E che forse, impareremo a seguire meno le mode alimentari, e più come nutrirci in modo moderno seguendo le ultime ricerche scientifiche.
(già pubblicato su ELLE febbraio 2019)