PENSIERI in SALITA
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L’immagine del mondo

[Pubblicato su Dove luglio 2015] Tre mesi a passeggio per le valli Dolomitiche indossando un trekker, che è poi uno zaino attrezzato con quindici fotocamere per una panoramiche a 360 gradi, batterie al litio, hard disk e un sistema di navigazione. Tre mesi a mappare, scattare, localizzare. È quella che un tempo Susan Sontag avrebbe chiamato una partita di caccia, fatta di mirini puntati e immagini catturate con uno scatto. Una partita organizzata per collezionare il mondo perché, appunto, “la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come un’antologia di immagini” (Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi). Se poi le fotografie sono tante, sommate e mappate per rendere tutto raggiungibile almeno con gli occhi, ecco che il risultato è, più che un’antologia, un’esperienza. È così che oggi, con lo Street View di Google Maps, pure stando comodamente seduti in salotto, si può salire fino al monte Civetta o esplorare il nevaio delle Dolomiti del Brenta. Uno zoom, e quasi si riesce a percepire il profumo delle erbe alpine. Un altro zoom, e si finisce sul Ponte del Diavolo nell’isola di Torcello, vagando per le calli e i canali più segreti della Laguna veneziana. Ancora un clic, ed eccoci nuotare virtualmente tra le mante della riserva marina di Apo Island nelle Filippine. Solo nelle ultime tre settimane, in Italia, le auto Google hanno percorso circa 11mila chilometri. Un dato che ci regala l’illusione di avere l’immagine del mondo nelle nostre mani. Sì, l’illusione, perché mai come ora, che crediamo che anche l’invisibile sia stato svelato, offerto al nostro sguardo senza che vi siano censure o limiti, ciò che vediamo è lontano dalla realtà.

«L’immagine non è mai stata verità» dice Elio Franzini, professore di estetica nonché preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università Statale di Milano e autore di numerosi libri sul tema. «E non solo perché non porta le cose “in presenza”, ma perché è sempre stato possibile manipolarla. Oggi, il problema è solo potenziato: da una parte per le possibilità tecniche offerte dalla digitalizzazione, dall’altra per una sorta di abuso che non ci fa riflettere sul senso di ciò che vediamo, secondo un vecchio adagio di Jean-Jacques Rousseau che già diceva “più si vede, meno si immagina”». Perché in fondo, il senso vero di un’immagine sta proprio nel suo lato simbolico e nascosto, in quell’invisibile che oggi crediamo di vedere, ingannati da un’apparenza che toglie tempo e spazio a riflessione e conoscenza. «Aveva ragione Jean Baudrillard quando diceva che questa non è la società delle immagini, bensì dell’apparenza delle immagini. La nostra è una cultura della visione che si sostituisce a quella della riflessione e noi, intanto, disimpariamo a scrivere, a leggere, a praticare testi… la portata di questo cambiamento culturale e antropologico sarà visibile solo tra qualche anno» continua Manzini.

Quello che vediamo già adesso invece, sono i 300 milioni di utenti e gli oltre 70 milioni di foto e video che ogni giorno vengono condivisi, dopo solo quattro anni dalla sua nascita, su Instagram. E, nell’interazione, lo scatto, l’istantanea, subisce un’ulteriore alterazione e diventa evento visivo, spesso filtrato, adulterato, manipolato certo, tanto che nel caso di una fortuita naturalezza si usa l’hashtag #nofilter, ma pur sempre “evento”. Così si capisce perché, l’unica macchina fotografica scampata al dominio degli smartphone, sia uno strumento come la GoPro, ovvero un’action cam che ha di fatto ha trasportato l’esperienza in diretta, nello scatto. Con tanto di tecnologie avanzate come il 4k, l’HiLight Tagging e il video Trimming per rendere l’immagine ancora più condivisibile e partecipata, con quell’ansia perenne di 3D che ci vuole “dentro” piuttosto che “fuori”, a osservare. Ma essere davanti, ci si rassegni, non è come essere sul posto, viverlo, percorrerlo. E nonostante i surplus emozionali, l’immagine dovrebbe forse stare laddove è stata messa dalla basilissa Irene, vedova dell’Imperatore Costantino V, che volle, nel 787, il Concilio di Nicea. «A lei dobbiamo, riunendo la cultura cristiana di Oriente e Occidente, il culto delle immagini» dice Manlio Brusantin, architetto, collaboratore di diverse Biennali di Venezia di Arte e Architettura, esperto internazionale sul tema del colore e autore di La storia delle immagini (Einaudi). «Prima di allora fare immagini significava imitare l’atto della creazione, farne una sorta di caricatura, cosa inconcepibile, ancora oggi tragicamente, per il mondo islamico. Ma se il Concilio ha aperto la porta alla rappresentazione dell’irrappresentabile, ora è l’immagine del nostro stesso volto, tra ritocchi, selfie, camouflage, a essere intangibile come quella divina. Con il sospetto di una sempre presente volontà di seduzione essendo, come ci ha insegnato Guy Debord, l’attuale società dello spettacolo solo un’evoluzione più subdola di quella delle immagini».

Subdola e invasiva, plasmatrice di mode e di gusto. Perché ora che abbiam “visto” tutto, dalle macro dei tessuti cellulari alle galassie immortalate dal telescopio Hubble, siamo diventati più esigenti, attenti, quasi perfezionisti dell’apparenza. «L’aspetto positivo di questo bombardamento visivo è una maggior estetizzazione dell’immagine» conclude Manzini. «Oggi siamo in grado di riconoscere meglio la bellezza dei colori o le qualità tecniche, ma non sono certo che si possa dire la stessa cosa sulla nostra capacità di apprezzarne le differenze. Un’immagine di un’opera d’arte e un’altra di Belen Rodriguez non sono la stessa cosa, eppure finiscono nello stesso flusso… estetico». Basta scorrere una qualsiasi gallery per capirlo: volti amici e sconosciuti, cibi (tanti) e tavole, cartelli stradali e panorami, pezzi di città e di salotti, vacanze e lavori. Tutto insieme. Che strano, quando anni fa, Sontag si preoccupava di “abbassare la soglia dell’orribile”, si riferiva al pericolo che, esposti di continuo a immagini brutali o sconvenienti, potessimo anestetizzarci. Oggi, che forse l’unico baluardo capace di risvegliare le nostre distrazioni e indifferenze è, ancora, quel poco di fotogiornalismo che è rimasto (non dimentichiamoci che noi scoprimmo l’orrore del Vietnam e del napalm grazie a una foto che mostrava una bimba nuda che correva), pare che l’inquietudine più grande sia l’eccessiva e saturante bellezza. Un mondo in definitiva fin troppo patinato in cui, sempre più raramente, abbiamo il coraggio di vedere l’immagine di noi stessi.

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Manuela Mimosa Ravasio è una giornalista professionista con una formazione da architetto. Ha lavorato per anni come caporedattore scrivendo di società e attualità in riviste del gruppo RCS e tutt'ora firma per i maggiori quotidiani e settimanali nazionali. Oggi svolge la sua attività da libera professionista offrendo anche consulenze in comunicazione, progettazione di contenuti e strategie narrative, e formazione per la promozione di territori.

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