C’è stato forse un tentennamento, un sussulto di coscienza su qualche social network, magari dopo i dati recenti dell’Osservatorio Incidenti Rider Food Delivery istituito dall’Associazione Amici Polizia Stradale, poi però il digital food delivery ha ripreso la sua avanzata. Inarrestabile. È quasi diventato un sostantivo a sé. Invece di «Ci facciamo una spaghettata…», c’è sempre qualcuno che se ne esce con: «Chiamiamo un Deliveroo?». Oppure un Uber Eats, un Just Eat, un Glovo, che sembra ci sia la fila dei fattorini pronti a recapitarti sull’uscio un (qualsiasi) piatto pronto. In attesa di verificare se, nel 2030, come dice uno studio di UBS, la maggior parte dei pasti non sarà più cucinato in casa, ma in ristoranti o cucine esterne, non resta che prendere atto dei numeri dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, e che dice che il Food Delivery è il primo comparto del mercato on line con 566 milioni di euro e una crescita del 56 per cento rispetto al 2018, e che ormai quasi la metà degli italiani può usufruire di questo servizio.
A trascinare l’esplosione sono città minori come Bolzano, Catanzaro o Alessandria, che – lo si legge nella terza Mappa del Cibo a Domicilio in Italia realizzata da Just Eat – hanno registrato un aumento degli ordini anche del 600 per cento. Ma forse la cosa più interessante sono quelle impennate di pokè bowl, la ciotola “hawaiana” con verdure e pesce fresco, di bao (una specie di panino al vapore) e ravioli cinesi, e di cibo libanese, a testimoniare che, online o offline, in casa o al ristorante, dopo diversi lustri di cibo mania, la curiosità dei palati non si placa. E il food delivery si adegua. Il meal kit è uno dei trend emergenti. Arriva a casa una scatola con tutti gli ingredienti, magari bio e provenienti da allevamenti sostenibili, necessari per preparare la ricetta ordinata, e il problema di spesa, spreco alimentare e menu, è cancellato. Con questa formula Quomi in due anni ha raccolto 10mila clienti e spedito più di 150mila pasti in tutta Italia. I giovani di NutriBees invece, puntano sulla cucina salutare: si fa un test nutrizionale sul sito quindi, con un abbonamento settimanale di minimo cinque piatti, la dieta, porzionata in appositi imballaggi, arriva a casa pronta per essere riscaldata. Le cucine sono vicino a Venezia, ma i piatti, 5mila a settimana, arrivano con un corriere ovunque. Anche in ufficio.
Dove, a rivoluzionare la pausa pranzo, c’è Foorban, che porta nelle aziende piatti freschi ritirati dal dipendente interessato e consumati in aree dedicate. Sarà questo, come-e-dovunque-vuoi, il modo in cui consumeremo il cibo del futuro? A guardare cosa succede nel mondo, dove l’americana Freshly, che ha appena intascato 77 milioni di dollari da Nestlé, o l’inglese All Plants, che consegna solo piatti vegani, stanno rosicando spazio in un settore iper competitivo e anche un po’ affollato (perfino Jeff Bezos ha rinunciato a correre chiudendo, a luglio scorso, i suoi Amazon Restaurants), sembrerebbe di sì. Nonostante i volumi sempre più grandi, il business del food delivery pare non sia infatti così sostenibile, e la recente scivolata in borsa del gigante americano GrubHub ha lanciato qualche allarme. Forse piccolo, mirato, specializzato, è meglio. Come i tre ragazzi di Milano che hanno creato Dog Heroes, un modo per portare la pappa del cane direttamente nella cuccia. Ovviamente salutare e personalizzata. Ma soprattutto evitando al padrone di fare quello che ormai non fa più neppure per se stesso: preparare da mangiare.
Articolo pubblicato su Repubblica dicembre 2019