agricoltura di montagna, NUTRIMENTI
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I ribelli del cibo. Un viaggio tra piccoli produttori di montagna

«Per questa toma di otto chili ci vogliono minimo dagli 80 ai 85 litri di latte. Se consideriamo che per ogni mungitura ogni animale da 8/9 litri di latte, che poi significa 16-18 al giorno, questo significa che per fare questo formaggio ci sono voluti anche sei animali». A parlare è Alexander Agethle del Caseificio Englhorn, uno dei quattro Ribelli del Cibo, quattro produttori della montagna dell’Alto Adige protagonisti del documentario che Paolo Casalis ha presentato all’ultima edizione del Trento Film Festival aggiudicandosi il Premio Eusalp. I ribelli del cibo, dice Casalis: «Sono coloro che non si arrendono davanti alle fatiche evidenti, che trovano strategie per supplire alla mancanza di sostegni istituzionali, che credono, davvero, che si possa praticare un altro modo di produrre il cibo, rifuggendo dalla quantità e coltivando la qualità».

Mangia come pensi

Casalis, architetto, ciclista appassionato, e da 15 anni documentarista, nato a Bra, capitale del movimento Slow Food, in un certo senso in mezzo alla filosofia del cibo legato a territorio e sostenibilità ambientale, c’è cresciuto. «Quelli che allora erano concetti astratti, oggi, almeno per questi quattro produttori di cibo, sono pratica quotidiana. L’allevatore che riesce a investire attivando una raccolta fondi per coinvolgere i clienti nell’acquisto di “quote di formaggi”, Maria Gasser, la ristoratrice del Turmwirt che pur di mantenere la sua casa intatta, il suo diamante, quella che dal 1778 e cinque generazioni abita con la sua famiglia, fa piccoli miglioramenti, ma nessun ampliamento, mettendo dentro solo qualità».  Chi credesse però che I Ribelli del Cibo sia un panegirico sul piccolo mondo agricolo, si sbaglia. Alexander sembra far tutto da solo – munge, pascola, vanga la terra del fieno – in una giornata di lavoro che inizia alle 5 del mattino e finisce la sera tardi; lo stesso vale per Katya Waldboth e Armin Untersteiner del Cioccolato Karuna  che tostano ogni tipo di fava di cacao in modo diverso, prendendo solo la qualità premium (il 5 per cento della produzione totale) e rivendicando un equo ed etico pagamento ai contadini; e per Lorenz Borghi e Leander Regensburger di Rebellen (foto sotto), quasi ostinati nel loro modo biologico e sostenibile di coltivare erbe aromatiche, sconsigliati dai più che consideravano la loro impresa quasi una follia.

La rivoluzione nel piatto

Ecco perché ribelli dunque, perché di fronte al buon senso di una grande distribuzione, continuano imperterriti per la loro strada. Dice Alexander che lui potrebbe aver anche 10 mucche di più, ma non oltre, altrimenti cadrebbe in quel sistema che lui stesso critica. È l’antico dilemma della quantità verso qualità, che però nasconde anche l’impossibilità, tutta nei limiti dell’umana fatica, di essere insieme produttori, comunicatori, venditori. La micro economia familiare è bella da raccontare, ma da poco da vivere. Anche l’autenticità insomma, o soprattutto quella, ha un costo. Trovare il giusto equilibrio, né troppo piccoli, né troppo grandi, è la vera sfida dei Ribelli del Cibo. «Al di là delle difficoltà che il documentario non nasconde» conclude Casalis, «è importante che siano gli stessi protagonisti a offrire e proporre soluzioni concrete. La cooperazione tra piccoli produttori per dividere i costi della distribuzione e dei macchinari, la consapevolezza delle dinamiche del mercato per esempio sono grandi alleate».

Ribelli ma non eroi

Sarà anche per questo che I Ribelli del Cibo, oltre al premio del TFF, sta andando a diversi festival. La sua capacità di andare al di là del racconto di denuncia, e di dare voce a proposte e azioni concrete. Idealizzare l’agricoltura, il cibo puro e genuino, diventa poco credibile. Mentre è importante sapere che, anche la produzione del cibo di montagna, non può essere eroica. Alexander e le sue 12 vacche; Maria, mamma single che sa bene che un menu a Km zero è ormai un valore aggiunto anche per i famigerati turisti; Lorenz e Leander che seminano, raccolgono e impacchettano da soli, ma dividono con altri i macchinari; Katya e Arminche hanno chiamato il figlio Karuna, la parola in sanscrito che significa misericordia, non sono e non possono essere eroi. E la loro sopravvivenza è anche la nostra.

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