[Pubblicato su Sette/CorrieredellaSera 19 giugno 2015] Che cosa ci fa Michiel Bakker, responsabile del Global Food Program di Google, tra le acetaie di Modena e i prosciuttifici del parmense? E cosa mai vorranno i ricercatori dell’Institute for the Future di Palo Alto dagli agricoltori di quella che è stata soprannominata, con i suoi 41 prodotti Dop e Igp, la Food Valley? «L’Emilia Romagna è ormai considerata un Food Innovation Hub a livello mondiale: processi innovativi nella filiera del cibo nati e sperimentati qui hanno avuto un impatto nel resto del mondo». Chi parla è Sara Roversi, tra i fondatori del Food Innovation Program, un think thank internazionale nato a Reggio Emilia legato ai temi dell’alimentazione. L’appuntamento per il Forum è al Palazzo Italia di Expo per il 22 e 23 settembre, ma già da fine giugno i protagonisti della ricerca agroalimentare saranno nella regione che ha dato i natali all’“inventore” della cucina italiana, Pellegrino Artusi. «Fare innovazione in campo alimentare è indispensabile», continua Roversi. «Salute e sostenibilità sono i temi fondamentali a cui dare risposta. E noi lo facciamo anche alimentandoci della cultura cooperativa che nel nostro territorio ha radici antiche, creando eventi e piattaforme partecipate come WikiExpo in cui saranno inseriti tutti i contenuti acquisiti in questi mesi».
Integrare tecnologia e “umanità” sarà infatti la sfida del futuro, anche alimentare. Ne sa qualcosa Luigi Rovati, docente di Sensori nella food production all’Università di Modena e Reggio Emilia «È l’agricoltura 3.0. Quella che permette di controllare, nella terra del Lambrusco e del Sangiovese, la fermentazione in 10mila botti grazie a una boa che monitora pH e temperatura e trasmette wireless i dati raccolti a un solo operatore». Ed è quella che permette a un agricoltore come Eros Gualandi di controllare le produzioni di cereali e sapere, in tempo reale, stato di salubrità, nutrimento e accrescimento. «Con l’agricoltura di precisione sondiamo anche gli aspetti qualitativi, come la quantità di glutine nel grano, o le componenti nutritive di ogni balla di foraggio destinata alle mucche da latte per il Parmigiano Reggiano» dice Gualandi. «Grazie alle tecnologie satellitari e alle mappature del terreno poi, sappiamo esattamente dove, e quanto, fertilizzante o acqua usare con un risparmio, in tema di risorse, dal 15 al 50 per cento». Perché la conoscenza è la strada maestra, non solo per rispondere a una domanda alimentare crescente, ma anche per garantire migliori fertilità e salubrità alle terre. Il che significa, in una regione che è la prima in export agroalimentare (5 miliardi e 47 milioni di euro, il 16 per cento del totale nazionale), garantire anche alle piccole produzioni tipiche, un futuro.
Francesco Donati, 77 anni, ex docente di Economia Agraria all’Università di Udine e autore del Il Casante di Raffanara. Storie di contadini nella Romagna del Seicento (Il Ponte Vecchio ed.), con la produzione integrata ha tenuto in vita varietà antiche di mele come Calvilla Bianca e l’americana Black Ben Davis; di peri come il Moscatello, il Mora di Faenza, il Sangiovanni; e di vitigni romagnoli come il Lanzesa, il Bertinoro, il Gamberina e la sua passione, la Guizzadola. «Ho scovato quest’uva che cresceva spontanea nella pineta di Classe di Ravenna scavando nei documenti del Seicento. Quest’anno ne produrrò 200 bottiglie, ma le regalerò tutte agli amici: a me non interessa il mercato, ma solo salvaguardare memoria e territorio». Che nel suo piccolo podere, tra Palazzo San Giacomo e la Villa Romana di Russi, offre tra gli scorci più belli del ravennate. Ma innovazione e tradizione vanno a braccetto anche in una produzione storica come l’aceto balsamico. Il visionario è Andrea Bezzecchi, presidente del Consorzio di Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP, che, dopo aver ereditato l’acetaia San Giacomo, ha iniziato una collaborazione con il FabLab di Reggio Emilia per creare un acetificatore domestico. «L’autoproduzione è un processo che non si può fermare, si può invece trasformarlo in un’occasione per far crescere la cultura intorno al prodotto. Anche se questo è aceto di vino, e noi facciamo balsamico da mosto d’uva locale biologica invecchiato minimo dodici anni, riuscire a mettere a disposizione di tutti un manuale scaricabile, un phmetro collegato a Arduino con una sonda che rileva temperatura, un areatore per l’ossigenazione, e uno starter di acetobatteri selezionati dall’Università di Regio Emilia, è un ritorno per tutti».
Perché gli emiliani e i romagnoli, descritti spesso come sanguigni ma franchi, combattivi e generosi, sono in fondo un po’ visionari. Così, se alla fine non manca l’ennesima disputa tra culatello e culatta che, come spiega Miriam Giuberti dell’omonimo salumificio che ne lavora, ancora manualmente, 20 mila pezzi da sei chili l’anno: «è un culatello con la cotenna dal particolare profumo e morbidezza», c’è anche chi, a Santa Maria del Piano, dieci minuti di strada da quel Langhirano patria del prosciutto di Parma, si è messo ad affumicare salmoni delle Faroe per trasformarli in prodotto gourmet. «Ho fatto degli esperimenti, quindi ho cambiato la marinatura tradizionale con diversi passaggi di sale e di zucchero, e nell’affumicatura, che io non faccio continua ma a getti, metto il faggio del monte Caio, nell’appennino parmense, mescolato con legni aromatici come l’alloro» dice Claudio Cerati, titolare di Upstream. Una piccola produzione che, come ripete, è solo l’ennesima dimostrazione della pignoleria locale. La stessa che specifica, di comune in comune, dalla chiusura dei cappelletti, al ripieno e alla grandezza della forma. Sarà… sta di fatto che, dalla Silicon Valley arrivano fino a qua e non se ne vanno prima di aver visitato il Museo della Salumeria, primo in Italia, di Castelnuovo Rangone di Modena. L’ha voluto la famiglia Villani che, con i suoi 129 anni è la più antica salumeria della regione. Tre piani dedicati alle spezie usate per la lavorazione, a video e testi con storie e aneddoti, a reperti storici e antichi macchinari, ai diversi mestieri e arti del taglio. Perché non c’è innovazione senza storia.