Donne, Interviste
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Elena Ioli, le donne, la scienza, l’ambiente

Elena Ioli è una fisica teorica, ha lavorato sui buchi neri all’Università di Bologna e all’École Normale Supérieure di Parigi. Insegna anche fisica in una scuola secondaria superiore ed è autrice di molti libri. Nel febbraio del 2018 è stata selezionata per partecipare al progetto australiano Homeward Bound, che ha portato 77 scienziate provenienti da tutto il mondo in una spedizione di quattro settimane in Antartide, coniugando scienza, comunicazione, leadership e tutela dell’ambiente. In occasione di un mio servizio per Gioia! le ho fatto alcune domande. Qui l’intervista integrale.

Lei ha appena terminato una spedizione tutta al femminile internazionale. Posso chiederle se le sue colleghe straniere hanno avuto un miglior e più facile accesso alle carriere scientifiche? Penso soprattutto al gender gap che in Italia si riscontra tra maschi e femmine…

I pregiudizi culturali riguardo a una presunta maggiore predisposizione maschile, piuttosto che femminile, per una carriera scientifica sono ancora diffusi. Sebbene la percentuale di donne che si laureano in discipline scientifiche sia all’incirca la stessa dei colleghi maschi, globalmente le donne occupano solo il 21 per cento delle posizioni dirigenziali in ambito scientifico. In Italia la percentuale di donne che si laureano in discipline scientifiche è pressoché la stessa dei colleghi maschi, ma questa percentuale si abbassa drasticamente se consideriamo le posizioni dirigenziali della carriera scientifica: nelle università, meno del 30 per cento dei professori associati e appena il 10 per centi dei professori ordinari sono donne. Discutendo con le mie colleghe straniere, soprattutto australiane, la situazione non è molto diversa. Quello che ho riscontrato, però, rispetto all’Italia, è un maggior interesse per il tema della “gender equity” in ambito scientifico, soprattutto a partire dalla scuola media di primo e secondo grado, dove gli studenti e le studentesse hanno bisogno di conoscere modelli di scienza al femminile perché è proprio nella scuola che si formano le prime discriminazioni.

Una fisica che si occupa di cambiamenti climatici, tema fondamentale, crede che esista un approccio “al femminile” del problema?

A dire la verità, sono una fisica teorica di formazione (ho studiato i buchi neri) e attualmente insegno fisica nella scuola superiore. Il mio interesse per i cambiamenti climatici nasce dalle continue domande dei miei studenti, dalla mia coscienza di cittadina, e senz’altro è stato stimolato dalla mia partecipazione al progetto Homeward Bound in Antartide. In generale, nel mondo scientifico, se guardiamo le percentuali dell’ultimo Science Report Unesco del 2015 che citavo prima, le donne sono escluse in modo sproporzionato, per esempio, dalle conversazioni sul cambiamento climatico e sul futuro sostenibile del nostro pianeta: quella voce che manca è importante. Uno dei focus della spedizione antartica Homeward Bound è proprio l’attenzione al ruolo delle donne nella scienza. La biodiversità in natura è sinonimo di ricchezza e vitalità e le settimane passate a stretto contatto con una comunità di scienziati e scienziate hanno reso possibile interazioni e scambi fecondi indirizzati alla salvaguardia del pianeta, con uno spirito di inclusione e collaborazione per il bene comune che considero un tratto molto femminile.

Lei si definirebbe femminista?

È senz’altro vero che il mondo scientifico è ancora in gran parte dominato dagli uomini. E’ vero anche che le donne, molto più dei colleghi maschi, soffrono di quella che dalla fine degli anni Settanta è chiamata “sindrome dell’impostore”,  la sensazione di non essere all’altezza e di occupare in modo immeritato una posizione di prestigio, accompagnata da un atteggiamento eccessivamente autocritico e da senso di inadeguatezza. Gli stereotipi di genere sono ancora molto diffusi. Detto questo, non mi interessano le definizioni che imbrigliano il pensiero. Come dice Jane Goodall, la celebre etologa inglese che ha sempre rifiutato di essere considerata un modello di riferimento femminista, “avevo bisogno di qualità femminili per essere sia accettata che rispettata in diversi paesi.” Ecco il nostro mondo oggi ha bisogno di dialogo e di condivisione e di una mentalità inclusiva.

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Manuela Mimosa Ravasio è una giornalista professionista con una formazione da architetto. Ha lavorato per anni come caporedattore scrivendo di società e attualità in riviste del gruppo RCS e tutt'ora firma per i maggiori quotidiani e settimanali nazionali. Oggi svolge la sua attività da libera professionista offrendo anche consulenze in comunicazione, progettazione di contenuti e strategie narrative, e formazione per la promozione di territori.

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