Scriveva Antonia Pozzi, che “la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi” (L’Antonia. Poesie, lettere e fotografie di Antonia Pozzi scelte e raccontate da Paolo Cognetti, Ponte alle Grazie). Lei che si era presa la “malattia del Cervino”, che faceva 1800 metri di dislivello solo “con gli occhi per guardare e i muscoli per camminare”, e che sciava anche “in salita”, visto che ai tempi le funivie erano solo sulla carta. Basterebbe leggere i suoi scritti per capire che la storia che “donne e montagna” non vanno d’accordo è solo l’ennesima ricostruzione ad alto tasso di testosterone. Quello che è certo, è che le attrezzature per l’alpinismo, piccozze, ramponi, o moschettoni, sono studiate per un corpo maschile. Noi adattiamo le impugnature delle piccozze con dei tape e usiamo ramponi accorciabili. È un mercato piccolo, dicono, ed è difficile fare investimenti. Anche le prime MTB specificatamente disegnate per il corpo delle donne risalgono a pochi anni fa. Dopo di che, il fenomeno è esploso… Ma sono anche altri numeri a richiamarci alla realtà. Sono solo 16 su 1129 le donne guide alpine. E nella gestione degli impianti funiviari, si contano sulle dita di una mano. Certo, a capo dell’Associazione Nazionale Esercenti Funiviari c’è Valeria Ghezzi, e soprattutto, da pochi mesi, per la prima volta in quasi 150 anni, a presiedere la Società Alpinisti Tridentini, 27mila affiliati e 56 rifugi d’alta quota, c’è una donna, Anna Facchini. Fa ben sperare.
Soprattutto perché si sta uscendo da una narrazione della montagna come performance, esibizione di prestanza fisica e forza. «Basta guardare l’evoluzione del Trento Film Festival. Una volta i film raccontavano di ferrate e conquiste muscolari delle vette, ora di territorio, cambiamento climatico, connessione con la natura, vita rurale. È il codice femminile diventato protagonista, tanto necessario oggi che si richiedono attenzione nella gestione delle risorse, capacità di ascolto, consapevolezza del limite», dice Gianluca Cepollaro vicedirettore della Trentino School of Management e responsabile di Accademia di Montagna. Non a caso, l’abbinata donna, impresa sostenibile, innovazione e montagna, è vincente. Le donne che nell’ultimo anno hanno partecipato ai percorsi di accompagnamento degli sportelli Vado a vivere in montagna e Vieni a vivere in montagna di InnovAree, partner del Centro per l’Innovazione Sociale SocialFare, sono state il 53 per cento (in crescita del 7 rispetto al 2020). In Valle d’Aosta, dati Coldiretti, le nuove imprese agricole create da donne sono il 37 per cento, mentre alla nuova GrandUp! IMPACT Mountain School di Paraloup dedicata ai futuri e future montanare, le candidate donne erano la metà. Come dire che quando montagna significa (anche) turismo sostenibile, produzione locale, recupero e valorizzazione del territorio, economia di comunità, allora parla al femminile. Con le voci di associazioni sempre più numerose: Donne in Campo, Donne dell’agricoltura di montagna, Carovana dell’empowerment femminile in Carnia… solo per citarne alcune. L’augurio è che degli 800 milioni di euro previsti nel Decreto Sostegni per le aree montane, una fetta consistente, insieme alla possibilità di accedere a percorsi di microcredito, bandi per contributi a fondo perduto, arrivi alle donne. È un’altra cima da conquistare. Con pazienza e determinazione come insegnano le storie di queste donne che hanno scelto la montagna come stile di vita.
Marzia Bortolameotti, guida di media montagna e fondatrice di Donne di Montagna
Essere stanca di guardare dalla finestra e mettersi alla prova. Se poi dalla finestra vedi solo un parcheggio e uscire dalla tua confort zone significa stare tra le tue montagne, allora non c’è gara. È quello che ha fatto Marzia Bortolameotti, professionista del marketing, licenziandosi in pieno Covid e iscrivendosi al corso di accompagnatore di media montagna delle Guide Alpine della Lombardia. Niente ferrate o arrampicate, solo trekking a ogni quota, e il tempo di dedicarsi a Donne di Montagna, blog che raccoglie storie di donne che hanno scelto le Terre Alte e che organizza trekking al femminile (calendario eventi sul sito). «Non c’è differenza tra sessi quando devi superare le prove per diventare una guida. Mi sono portata per giorni sulle spalle uno zaino pesantissimo, ho dormito in tenda e nei bivacchi, ho avuto male ai tendini, il ciclo quando dovevo fare 1550 metri di dislivello… Io che ho sempre fatto un lavoro sedentario non credevo di farcela, e invece ho imparato a camminare e respirare, orientarmi con bussola e cartina, non arrendermi alla fatica e arrivare alla fine». Perché la montagna può essere una vera scuola di empowerment. «Durante gli eventi di Donne di Montagna, molte mi dicono che camminare in quota le aiuta a ritrovare sé stesse e chiarire i propri obiettivi. In gruppo ci si supporta: salire a Punta Penia, la vetta più alta della Marmolada, è una sfida che insieme si può vincere». I 40mila post condivisi in poco tempo con l’hashtag #donnedimontagna sono la spia che di rompere la narrazione al maschile sulla montagna ce n’era bisogno. Come c’è bisogno di eventi come il Women’s Climbing Days, 16 e 17 ottobre alla Falesia Dimenticata di San Lorenzo Dorsino. Per salire in alto. Fino alla fine.
Monica Borsatto, ingegnere ambientale
«La mia fortuna è stata aver avuto genitori giovanissimi, che mi lasciavano andare libera ovunque, e nei fine settimana mi portavano con loro le Alte Vie, le ferrate. Sognavo di diventare una guardia forestale allora». Invece Monica Borsatto, che da padovana vive e lavora a Bressanone, è diventata ingegnere. Per l’Ambiente e il Territorio di montagna come era prevedibile, che poi significa fare studi sui distaccamenti delle valanghe, perizie sui corsi d’acqua, rilievi… e per lei, progettazione di aree sciistiche, dagli impianti per l’innevamento artificiale alle funivie. «Anche quando ero l’università lavoravo in un rifugio, la neve è il mio ambiente ideale, io ho cercato di lavorare dove vivevo meglio: in montagna». Se vi siete entusiasmati per la discesa di Vincent Kriechmayr durante i Campionati mondiali di sci alpino di Cortina a febbraio, mentre scendeva la Vertigine Bianca toccando i 140 km orari, sappiate che i salti, i cambi di direzione e le curve, portano la sua firma. Come portano la sua firma le piste agonistiche de La Plose, e la nuova versione della Stratofana Olimpica di Cortina. «Quando penso a una pista da sci cerco sempre di mantenere le sinuosità dell’ambiente alpino, la connessione con la natura. Non è necessario realizzare nuove piste, meglio ottimizzare quelle che ci sono senza rompere un ecosistema. Progettare in montagna significa prendersi cura di un ambiente fragile, cosa che ho imparato in vent’anni di Soccorso Alpino, ma significa anche avere una visione a 360 gradi, un approccio trasversale e meno settoriale che le donne hanno più degli uomini». E da unica donna nel triveneto a essere direttrice d’esercizio di impianti risalita, segue collaudi, manutenzioni, pensa a una nuova cabinovia per la Val Gardena, e sta tra le sue guglie. «Qualunque cosa pur di stare tra le mie Marmarole dove posso girare per una settimana senza incontrare nessuno». È la vita che ha scelto.
Betta Gobbi, imprenditrice
Chissà quali strane idee aveva quella giovane donna milanese che passava il tempo tra moda e fotografia, “insegnare ai gatti ad arrampicare”? Questo pensavano quei montanari doc nati e cresciuti al cospetto del Monte Bianco, quando Betta Gobbi decise di trasferirsi a Courmayeur. «Fu una scelta di cuore» racconta oggi, «l’azienda del mio compagno era sofferente, aveva bisogno di un aiuto per risollevarla». Ce l’ha fatta, parrebbe, visto che Grivel, 200 anni di storia di una famiglia di fabbri che ha cominciato a realizzare attrezzature di montagna per i ricchi turisti inglesi che volevano salire sul Monte Bianco, è quella che oggi si definisce una multinazionale tascabile. «In un mondo maschile, mi sono ritagliata un ruolo per ripensare la partecipazione e l’accoglienza degli atleti, creare eventi ad hoc. Poi però mi sono guardata intorno, di nuovo…». Le prime lezioni di yoga Gobbi le prende a Près Saint Didier. «È stata una folgorazione, perché ho capito che la montagna era il posto ideale per una pratica che aiutava a gestire lo stress, aumentare concentrazione e capacità decisionali». Così va in Inghilterra, Portogallo, Francia, India, diventa insegnante, e torna qui, in montagna. «Cinque anni fa mi sono presentata in assessorato e ho esposto il mio progetto. Lo yoga poteva essere il volano per un turismo lento e sostenibile, vivere la montagna non solo come performance sportiva». E ancora una volta ha avuto ragione. Oggi per lo yoga in alta quota in Valle d’Aosta arrivano centinaia di persone, il 72 per cento da fuori; lungo il Cammino Balteo sono state risistemate strutture di accoglienza, e le iniziative ogni anno aumentano. «Per restare in contatto con chi viene d’estate, d’inverno organizziamo lezioni on line (VdaYoga,com, ndr), ma stiamo pensando a eventi invernali con nomi importanti». Adesso i gatti hanno imparato anche a meditare.
Federica Bieller, presidente Skyway Monte Bianco
«Cosa mi ha insegnato crescere tra le montagne? Avere una testa globale e un cuore locale. I miei piedi sono sempre ben piantati qui, tra queste vette, ma il mio sguardo è capace di andare oltre». Sarà perché dai 3.466 metri di Punta Helbronner a cui porta la funivia Skyway Monte Bianco, Federica Bieller, da tre anni presidente dell’impianto, può davvero guardare lontano. Oppure da un altro punto di vista. «Il mio motto fin dal primo giorno è stato “Non siamo solo una funivia”. Siamo come l’ascensore per il Louvre, un hotel a cinque stelle, la porta verso emozioni uniche». Fare di una struttura di servizio che di solito si “limita” alla salita, una struttura di accoglienza, è stato vincente. Con la donna di “acqua e ghiaccio”, come ama definirsi, in questo impianto avveniristico dotato di cinema alpino, sala congressi, la libreria più alta d’Europa, e capace di ruotare su sé stesso per far del panorama un’esperienza, sono arrivati in alta quota la musica di Rossini, le cene stellate, una cave d’altitude per affinare uno spumante, lo smart working… «Il Covid ci ha di nuovo messo alla prova, imposto di pensare sul lungo periodo: Save the Glacier, progetto di salvaguardia dei ghiacciai, era quasi un atto dovuto». Con azioni rispettose per la montagna come “adottare” un ciliegio alpino da piantare sulla collina di fianco la stazione per riportare ai piedi della funivia quel verde che una volta regalava un’infilata di ciliegi in fiori davanti una quinta di nevi perenni. «Ho sempre pensato che in montagna il susseguirsi delle stagioni, la trasformazione continua di colori, sia un naturale esercizio al cambiamento. Un continuo esercizio di resilienza.».
Irene Piazza, casara
Da inizio maggio a fine ottobre ai 1616 m. del passo Brocón, in Trentino. Con le sue quaranta mucche nella malga che un tempo era dei genitori. È questa la “casa” di Irene Piazza, tanto che resta anche quando l’estate finisce e i turisti se ne vanno per godersi il silenzio. «Faccio formaggio da quando avevo 16 anni. Ci sono stati periodi in cui era divertimento, altri in cui dovevo far palestra la sera per farmi i muscoli e poter lavorare il latte la mattina. È un lavoro duro, ma bisogna sapere che storicamente, mentre l’uomo si occupava degli animali, erano le donne a trasformare il latte… quindi, eccomi qua». Chi pensasse a una passione naïf però, è fuori strada. Una laurea in Scienze e Cultura della Gastronomia, anni come responsabile di stabilimento in una grande latteria veneta, consulenze per produzioni biologiche, e una passione per l’insegnamento perché, dice: «Non si può più fare formaggi “come lo faceva mio nonno»». Così quest’estate è nata la Scuola Internazionale dei Formaggi di Montagna a Segusino. «Abbiamo fatto lezioni sul riconoscimento delle piante al pascolo, sul benessere animale, sulla valutazione sensoriale del fieno, sulle tecniche di taglio, e un confronto con produttori di montagna di altre parti del mondo. Eravamo molte donne, che siamo più disposte a rivoluzionare le vecchie abitudini». Come ha fatto lei, del resto. Lavora solo il latte crudo e produce da sola anche i batteri lattici che servono per la fermentazione. Poi niente tome come vorrebbe la tradizione, ma robiole, croste fiorite o lavate, erborinati. Formaggi che ormai finiscono su tavole stellate. Quelle del Senso di Alfio Ghezzi al Mart di Rovereto, di Malga Panna a Moena, il gourmet d’alta quota di Paolo Donei, di El Molin a Cavalese di Alessandro Gilmozzi. «Per me non è qualcosa da mangiare. Il formaggio è un’idea».
Jasmin Castagnaro, designer
«È che fretta, tempi cittadini, ritmi standardizzati della produzione industriale non fanno per me». Sembrerebbe una ritirata quella dell’ecodesigner altoatesina Jasmin Castagnaro, ma è la conquista della felicità. Quella che provava quando, a Elvas, piccolo paese di 270 abitanti, era una dei cinque bambini di tutta la scuola elementare e passava il tempo tra i boschi. Così, dopo l’università e il lavoro a Bolzano, è tornata a Brunico. «All’inizio sapevo solo che sarei tornata all’artigianalità, poi un giorno, ho visto i miei piedi su un letto di foglie multicolore: avevo trovato la materia prima». Quando in autunno gli alberi cominciano a spogliarsi Castagnaro va per strade e parchi a raccogliere le foglie prima che la pulizia comunale le porti al macero. «Ormai me le procurano anche i vicini, e ho amici che me le mandano da Innsbruck». Si può fare innovazione con uno scarto della natura? A guardare cosa diventano il giallo delle foglie di Ginkgo, le tonalità marroni di quelle dell’acero, l’arancio timido del tiglio, e persino il grigio delle grandi di Paulownia, sì. Trasformate in lampade (che costano tra le 500 e 700 euro, ndr), tavoli, pannelli su misura e nel futuro, a grande richiesta, gioielli. «Prima tolgo il picciolo, le divido per colori e tipo di albero, e le metto nei sacchi. Con gli scarti faccio una polvere che utilizzo per l’impasto con resine biologiche. Quindi verso tutto negli stampi in legno che mi sono fatta fare in Val Gardena e aspetto. Ho imparato che è l’attesa il vero segreto. Del tempo e della giornata giusti per la raccolta, dell’autunno, persino i miei clienti hanno imparato ad aspettare. Anche un anno se serve e le foglie non ci sono. Che problema c’è?».
Articolo integrale della versione pubblicata su IoDonna/CorrieredellaSera del 2 ottobre 2021