[Pubblicato su Sette il 19 ottobre 2012] Mangio, dunque sono. Due parole per riassumere il pensiero di Claude Fischler. Direttore della ricerca presso il CNRS, l’agenzia nazionale di ricerca francese, responsabile del Centre Edgar Morin, in Italia noto anche per il saggio L’onnivoro, ha sempre indagato il ruolo del cibo e dell’alimentazione nelle società. Perché il cibo riguarda tutti, e tutto: il tempo e lo spazio, la salute e il piacere, la qualità della vita e l’ambiente.
Cibo come identità valore culturale: questo, in poche parole, il cuore della sua ricerca. Oggi, in tempo di individualismo esasperato, questo legame sembra in crisi…
L’individualismo è una delle cause della dissoluzione dell’identità collettiva. Succede anche a tavola, dove sono cambiate regole e modi della condivisione del cibo. Mangiamo sempre più spesso soli e sempre più spesso la nostra alimentazione è su misura, ritagliata su specifiche esigenze nutritive: sono quelle che io definisco les alimentations particulières, una sorta di negativo fotografico del pasto come lo abbiamo inteso finora: consumato in gruppo dividendo lo stesso cibo.
Questo significa che cambia anche il concetto di convivialità?
Vede, il termine convivialità fu portato in Francia da Brillat-Savarin al ritorno dal suo soggiorno newyorkese. Come tutte le utopie, ebbe molto successo tanto che ancora oggi, quando i francesi vogliono dire che un apparecchio tecnologico è user friendly, di facile uso, dicono che è “conviviale”. Ma non sempre, tra commensali, le cose sono facili, o semplici. Le illustrazioni del New Yorker sul Thanksgiving sono perfette per capire il senso profondo di questa parola e come esso si sia modificato nel tempo: durante la propaganda anni Quaranta, quando mangiare tacchino era un inno a patria, famiglia e tradizioni, le vignette ritraevano i convitati riuniti attorno al tavolo intenti a spartirsi lo stesso pasto. 50 anni più tardi, nel 1998, Roz Chast avrebbe invece disegnato una tavola in cui ognuno chiedeva per sé un piatto diverso: vegetariano, vegano, macrobiotico, senza lattosio o glutine, kosher… (foto sopra). Cosa fino ad allora inconcepibile, quando era dato per scontato accettare ciò che veniva offerto e mostrare, per giunta, la propria soddisfazione.
È pur vero che queste esigenze individuali sono legate a un nuovo modo di intendere il benessere personale e che il legame tra cibo e salute è sempre più forte…
La medicalizzazione del cibo è addirittura precedente all’individualismo alimentare. In un certo senso, la medicina ha preso il posto della religione che ha sempre dato indicazioni su come, e quando, nutrirsi. Ma, mentre la religione ci sollevava dalla scelta dell’alimentazione giusta per noi, la medicina ci responsabilizza e pare dirci che è dalle scelte personali che dipende la nostra salute. Ciò implica una forte contraddizione che è poi il dilemma fondamentale del “mangiatore” contemporaneo: l’uomo, di fatto, è ciò che mangia, ma se gli alimenti diventano banali prodotti industriali, oggetti commestibili non ben identificati come li definisco io, allora egli non è più sicuro di ciò che ingerisce e, di conseguenza, nemmeno di chi è. Ed ecco che torniamo al problema dell’identità, alle regole e ai legami sociali perduti…
Eppure oggi si parla continuamente di cibo e alimentazione. Basti pensare ai programmi televisivi…
È vero, le informazioni ci sono, ma sono troppe. E sono incoerenti, cacofoniche, in continuo cambiamento. In più, sono contraddittorie perché giungono da contesti differenti: la medicina, come dicevo, anche se sarebbe più giusto dire le medicine, la pubblicità, la televisione… Tutte le ricerche ci dicono che questo surplus di informazione, invece di generare conoscenza, genera ansietà. E il massimo di ansietà si ha dove l’individualismo è spinto all’estremo, come negli Stati Uniti per esempio.
Che cosa intende quando parla di rivoluzione gastronomica?
In realtà oggi parlerei più di proliferazione gastronomica, o meglio di re-invenzione della cultura gastronomica globale. I paesi emergenti che rivendicano il loro portato culturale e storico lo fanno anche attraverso il patrimonio culinario. Ed è diventato normale che tra i migliori ristoranti del mondo si trovino non solo francesi o italiani, ma anche peruviani, danesi come René Redzepi a Copenaghen, inglesi, o il catalano Ferran Adrià. Così com’è diventato normale parlare di turismo gastronomico ed enologico al pari di quello che si fa per l’arte, la storia o la natura.
Questa globalizzazione determina anche un cambiamento nella concezione di gusto e disgusto?
L’omogeneizzazione e la standardizzazione, quello che Edgar Morin chiama cracking planetarie, coinvolge ogni aspetto. Ma se da una parte i gusti si banalizzano, dall’altra si riscoprono, quasi come reazione, alimenti e produzioni locali e regionali. Sono i cibi che valorizzano il territorio e che ormai si trovano persino nei supermercati. Succede dappertutto: in Italia con Slow Food, ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti dove la catena Whole Foods, leader nel mercato biologico, è quella maggiormente cresciuta negli ultimi anni.
Il cibo è anche salvaguardia dell’ecosistema. La Dieta Mediterranea per esempio, è considerata valida non solo per le sue qualità nutritive, ma anche perché rispetta le risorse del Pianeta…
Io non dico certo quello che bisogna fare, mi limito a studiare ciò che succede. E quello che succede è che i paesi in cui regnano prosperità e abbondanza hanno completamente dimenticato il ruolo principale del cibo, la condivisione. La spartizione del cibo è, come già diceva l’antropologo Marshall Sahlins, uno strumento di coesione sociale: in molte società primitive in cui carestia e incertezza alimentare sono all’ordine del giorno, al momento del pasto ognuno prende per sé una porzione molto piccola per assicurarsi che resti qualcosa anche per gli altri. Solo l’ultimo, ne prende di più. La solidarietà è una delle grandi regole dello stare a tavola. Ed è questo che dovremmo ricordarci, perché l’alimentazione non è altro che un gioco in cui chi vince, prende tutto, e quando si mangia in più da qualche parte significa che, da qualche altra, c’è qualcuno che rimane a bocca vuota. Se si cominciasse a ragionare in quest’ottica, forse si comincerebbe a ripensare in altri termini anche la produzione e il consumo del cibo. Il mangiatore moderno medio deciderà di privarsi di qualcosa a vantaggio del Pianeta? Non ne sono sicuro. Ciò che rilevo è la nascita di molti movimenti che tendono alla rivalutazione del territorio, della campagna e dei prodotti rurali che non prevedano uno sfruttamento intensivo dell’ambiente: in Italia, Slow Food per esempio.
Non si tratta però di prodotti a buon mercato… L’alimentazione ecocompatibile è un affare per ricchi?
Non sono d’accordo. È solo un’alimentazione che insiste sulla qualità e che ci dice che, se siamo disposti a spendere per il cibo più di quanto ci siamo abituati, avremo alimenti migliori per salute e piacere del palato. Se ci pensa bene, è una teoria estremamente audace per dei vecchi bolscevichi! Anche al Barilla Center for Food & Nutrition la domanda è sempre la stessa: «Salvare il pianeta, ma a che prezzo?». E la risposta non è mai semplice, perché non si può banalmente dire: diventiamo tutti vegetariani. Il costo economico del cibo, il suo valore sociale, il piacere: queste sono i tre punti cruciali da cui non ci si può esimere.