In ogni storia, si nasconde sempre una buona parte di ironia. Nella storia del design, per esempio, è probabile che questa ironia si materializzi in una coppia di cuscini colorati. Precisamente, in quella disegnata nel 1925 da Claire Wagner Kosterlitz, giovane studentessa del Bauhaus di Dessau, la cui opera, secondo Juliet Kinchin, curatrice della mostra Designing Modern Women, 1890s–1990s, dal 5 ottobre nelle sale di Architettura e Design del MoMA di New York, «può essere assunta a simbolo del potenziale creativo e professionale delle donne, nonché della loro capacità di introdurre nella quotidianità, anche attraverso oggetti umili, il linguaggio delle avanguardie artistiche». Nei primi decenni del Novecento, occuparsi di cuscini non doveva tuttavia essere gratificante. E non solo perché Kosterlitz fu costretta per tutta la vita a nascondere il suo talento dietro un lavoro di badante a tempo pieno, ma anche perché dedicarsi al design tessile era considerata un’attività prettamente femminile e quindi, minore. Per esempio, quando, in un pomeriggio del 1927, disegni sottobraccio, Charlotte Perriand si presentò allo studio di Le Corbusier per cercare lavoro, il maestro le rispose: «Signorina, qui non si ricamano cuscini». Intimidita, quasi muta davanti agli spessi occhiali tondi, Perriand – così racconta nel suo libro edito da Laterza Io, Charlotte – si ritirò delusa e per un po’ credette che non avrebbe mai più rimesso piede al 35 di rue de Sèvres.
Un destino oltremodo caustico volle invece che Charlotte lavorasse in quel vecchio convento, che per molti era il santuario dell’architettura moderna, per ben dieci anni, e che, con Le Corbusier e Pierre Jeanneret, realizzasse una serie di scaffali, librerie e sedute, poi, alla fine degli anni Quaranta, il prototipo di una cucina per l’Unité d’Habitation di Marsiglia. Nella collezione del MoMa, e in mostra, è presente uno dei suoi pezzi più importanti: la serie di librerie Nuage. Oggi la didascalia recita: progettato da Charlotte Perriand, in collaborazione con l’Ateliers Jean Prouvé, ma, fino al 2012, prima che la figlia Pernette vincesse anni di battaglie legali per rivendicarne la paternità, il progetto dei mobili era stato attribuito al solo Jean Prouvé, uno che non ricamava cuscini e il cui nome dava quindi ai mobili un valore di mercato maggiore del 20 per cento. «Una rilettura di genere della storia del design» dice Kinchin «non solo fa emergere aspetti e contenuti che per anni abbiamo trascurato, ma ricolloca nella giusta complessità l’intero processo progettuale. Il design è fatto di collaborazione, compartecipazione, scambio. Un modo di lavorare tipico delle donne, ma che le ha spesso confinate in un ruolo subalterno: ancora oggi è difficile riconoscere a un oggetto più e più autori. Eppure sono le donne ad aver portato nel design una forte agenda sociale, delle competenze artigianali, nonché contesti, come il tessile o l’interior e l’exhibition design, spesso snobbati dagli uomini».
Se l’allestimento museale è oggi una disciplina vera e propria, lo dobbiamo infatti a Lilly Reich che, come molte, iniziò progettando tessuti e accessori femminili. Poi divenne la prima donna nel direttivo del Deutsche Werkbund e, nel 1932, l’unica donna a dirigere un laboratorio del Bauhaus, quello di tessitura. Per oltre 50 anni dalla sua morte però, fino a quando alla fine degli anni Novanta il MoMA non le dedicò una personale, la figura di Reich fu completamente messa in ombra dalla sua altra metà professionale, tale Ludwig Mies van der Rohe. L’allora curatore della mostra e dell’archivio di Mies del museo newyorkese (archivio per altro costituito dai ben 4000 disegni e documenti che Reich salvò dalla distruzione certa a Berlino) Ludwig Glaeser, fece notare come alcuni dettagli della famosa sedia MR del maestro Rohe (i cuscinetti di cuoio!) erano in realtà da attribuirsi a Reich e che, senza il di lei contributo, Mies produsse ben poco in quanto a design. Del resto, e pur tralasciando la recente polemica che ha visto l’associazione Women in Design raccogliere più di 12500 firme per chiedere, senza successo, l’attribuzione ex aequo a Denise Scott Brown del Pritzker dato nel 1991 al marito Robert Venturi con cui aveva fondato e condiviso lo studio Venturi Scott Brown & Associates, essere l’altra metà di una coppia può costar caro. Ne sa qualcosa la memoria di Bernice Alexandra Kaiser diventata, dopo aver sposato il più noto Charles, la signora Eames, Ray Eames. Anch’essa presente al MoMA, è anche protagonista assoluta di una retrospettiva, la prima, ospitata al California Museum fino a febbraio 2014. Ray Eames: A Century of Modern Design dimostra che, anche quando la signora architetto viveva sola a Sacramento, aveva idee pionieristiche di tutto rispetto.
Perché indagare sull’altra metà del design, non significa togliere riconoscimenti ai già noti maestri, bensì riempire vuoti di conoscenza, aggiungere ricchezza e sensibilità. «Senza prendere coscienza dell’importanza dei diversi ruoli professionali, delle diverse creatività e sensibilità, è difficile riconoscere ciò che è, o è stata, vera innovazione» continua Kinchin. Il nome di Loïe Fuller, per esempio, risulterà sconosciuto ai più. Ma questa donna, che con una trentina di elettricisti e qualche bacchetta con cui muoveva veli di seta colorati incantò, la notte del 5 novembre 1892, il pubblico delle Folies Bergère, finendo sulle locandine di Jules Cheret o sui dipinti di Toulouse Lautrec, segnò in modo indelebile il Liberty o l’Art Nouveau. Grazie alle sue invenzioni di illuminotecnica, all’uso sperimentale e spregiudicato dei colori luminescenti che aveva mutuato dagli insegnamenti sul radio dell’amica Marie Curie, Fuller rivoluzionò in vero il modo di stare sul palcoscenico, nonché di usare, insieme, suoni, luci e colori. È bene quindi che le mostre che puntano l’occhio sulla creatività femminile si moltiplichino, che il parigino Centre Pompidou continui ad acquisire, come ormai sta facendo da una decina d’anni, opere progettate da donne, mentre solo alcuni mesi fa ha concluso una personale su Eileen Gray, la grande designer, ovviamente presente al MoMA, a cui anche il Victoria Albert Museum di Londra ha dedicato un’esposizione permanente nelle sue nuove Furniture Gallery.
Irlandese e aristocratica, Gray era un’amica di Charlotte Perriand. Tra le prime donne ammesse alla londinese Slade School of Fine Art, dovette faticare non poco per farsi accettare come autodidatta in un mondo dominato da uomini. L’ammirazione di Le Corbu, che la convinse a occuparsi di architettura, dell’olandese J.J.P.Oud o di Walter Gropius e Pierre Chareau, poco servì tuttavia a evitare alla sua opera trent’anni di oblio, terminati solo con la pubblicazione di un articolo dello storico Joseph Rykwert sulla rivista Domus. Era la fine del 1968 e da lì a poco, i suoi arredi cominciarono a essere venduti a prezzi importanti fino all’asta parigina di Sotheby’s del 2009 durante la quale la Dragons Chair venne battuta a 28 milioni di dollari. La sedia faceva parte dell’arredamento originale di un’altra sua opera di culto: la Casa E1027 di Roquebrune Cap Martin ben nota, oltre che per rappresentare un modello per ciò che l’architettura moderna avrebbe espresso anni più tardi, per essere stata la scena di uno dei conflitti sessisti più forti nella storia dell’architettura. Sì perché, sulle pareti immacolate di quella casa eterea a picco sul mare, poco lontano da dove Le Corbu avrebbe costruito il suo Cabanon, un Le Corbusier nudo, che nell’atto non disdegnò neppure di farsi fotografare, dipinse su quei muri bianchi otto graffiti colorati. Offesa da quello che considerò un vero e proprio atto di prepotenza, Gray non tornò più in quella casa e continuò a lavorare e vivere come aveva sempre fatto, da sola. Recentemente, grazie a una fondazione e alla raccolta di fondi privati, la E1027 è stata salvata dalla rovina e, da poche settimane, la regista irlandese Mary McGuckian vi ha iniziato a girare le prime scene del film The Price of Desire che vede Vincent Perez nei panni di Le Corbusier e Shannyn Sossamon in quelli di Eileen Gray. Lo vedremo nelle sale nel 2014, dopo di ché, anche la villa sarà finalmente restituita al pubblico. E alla memoria di Gray.
Questo articolo è stato pubblicato su Sette/Corriere della Sera il 27 settembre 2013