Se proprio dobbiamo ricercare una data per dare un inizio certo all’infatuazione verso il sognato Giappone, quella è il 1854, anno in cui l’ammiraglio americano Matthew Perry entrò con le sue navi nella baia di Edo e mise la parola fine a quel sakoku (“paese blindato”) decretato dallo shōgun Iemitsu nel 1641. Prima di allora, a parte i commercianti olandesi che transitavano nel porto di Nagasaki e qualche missionario, ogni forma di contatto tra la popolazione giapponese e gli stranieri, in patria e altrove, era di fatto proibita. Un isolamento che aveva accresciuto il desiderio e l’immaginazione e che portò a un diffuso entusiamo dello stile e del gusto europei battezzato, nel 1872, dal critico francese Philippe Burty con il termine di japonisme. Nessuno ne fu indenne, visto che le stampe ukiyo-e, le così dette “immagini del mondo fluttuante” del periodo Tokugawa (1615-1868) arrivate in Francia come carta per gli imballaggi per l’Esposizione Universale del 1867, furono di ispirazione a un’intera generazione di pittori, da Claude Monet (che ritrasse la moglie Camille con kimono e ventaglio) a Paul Cézanne; da Gustave Courbet a Édouard Manet (che ne Il ritratto di Émile Zola riproduce con estrema precisione un paravento giapponese e una stampa di Utagawa Kuniaki che raffigura un lottatore). E fu per incanto verso i motivi giapponesi che i protagonisti della rivoluzione impressionistica cominciarono a replicare lo stesso soggetto, che fossero ponti, cascate, laghi, e ad esporli in serie.
La cosa singolare fu che l’Occidente usò, per entrare nella modernità e affrontare i radicali cambiamenti che lo aspettavano, i codici stilistici del Giappone più tradizionale. Pergamene, kimono, maki-e (gli oggetti laccati impreziositi da decorazioni in oro), ceramiche, ciotole in legno, finirono con l’essere il simbolo di un mondo nuovo, forse l’ultimo rimasto da scoprire. Un mondo che, come racconta giustamente Vittorio Volpi in Giappone delle meraviglie (Università Bocconi Ed., 2016), fino alla battaglia di Tsushima contro i russi e il conseguente disvelamento del “pericolo giallo”, era semplicemente armonia ed eleganza senza tempo. Che poi, a pensarci bene, è ancora quello che muove sempre più persone verso l’Impero del Sol Levante se, come dicono i dati dell’organizzazione nazionale per il turismo del Giappone, anche gli italiani in visita nel 2015 sono aumentati del 28 per cento e, c’è da crederci, da qui alle Olimpiadi del 2020, aumenteranno ancora. Il nostro quotidiano, per un certo verso, è permeato dal desiderio di giapponesità. A volte lo appaghiamo attraverso le parole (origami, sudoku, banzai, harakiri…); altre volte, con l’assimilazione di riti laici, dal riordino zen di Marie Kondo al risparmio organizzato del kakebo. «Forse è proprio questo il segreto del fascino del Giappone: dietro un’apparenza moderna o occidentale, conserva di fatto uno spirito originario, coeso e protettivo verso le proprie tradizioni. Del resto, i giapponesi stessi amano sentirsi unici, incomprensibili, e tatamizzarsi non serve per entrare in contatto con loro. Personalmente, solo quando ho imparato a decifrare la loro scrittura ho avuto la chiave per interpretare la magia della loro società». Una società che Antonietta Pastore, scrittrice e traduttrice, tra gli altri, di uno degli autori di culto contemporanei, Haruki Murakami, nei suoi libri (l’ultimo Mia amata Yuriko, Einaudi, 2016) descrive ancora secondo un immaginario tradizionale. I kimono che fasciano le donne, gli inchini a mani giunte, l’itadakimasu recitato all’inizio del pranzo, il suono del koto… «Il mio è un Giappone di provincia, non certo quello di Tokyo e Osaka, eppure grattando sotto quella patina di futuro, questi aspetti si ritrovano in certi gesti, in una certa impermeabilità. Una sensazione di spaesamento che unisce la familiarità del quotidiano alla meraviglia e che, a guardare bene, è anche il segreto del successo planetario di Murakami, il primo ad aver raccontato, tra banalità e desiderio di fuga, il Giappone di oggi».
Per una certa generazione, il Giappone è stato un miraggio di cartone (animato). Dai shōjo anime al femminile come Candy Candy, che l’anno corso ha compiuto 40 anni, a Lady Oscar o Heidi, oggi di nuovo in voga grazie a un film (nelle sale il 3 marzo) e alla nuova edizione del classico della letteratura per ragazzi di Johanna Spyri (Einaudi), fino all’universo di Hayao Miyazaki, con i suoi labili confini tra bene e male, sogno e realtà, tempo e desiderio. E chi non ha provato a imitare la mossa della gru con cui Daniel vince l’incontro finale in Karate Kid… Il Giappone ci ha lusingato con le sue radio a transistor (anno 1955, con la Tokyo Tsushin Kogyo oggi Sony), con il primo walkman (1979), con un religioso gusto per la miniaturizzazione e un design lieve e leggero. Rossella Menegazzo e Stefania Piotti lo hanno sintetizzato con la parola Wa che è anche il titolo del loro libro sull’essenza del design giapponese (Phaidon, Ippocampo) e che, al tatto, si traduce in forme di una naturale semplicità, in una materia calda capace di ricordarci le energie della Terra. Oggetti anonimi, ma non per questo meno raffinati, ponderati, dedicati. Jun’ichirō Tanizaki nel suo Libro D’Ombra (Bompiani) spiegò in modo definitivo cosa fosse l’estetica giapponese. Una misura che sta nella natura stessa delle cose, come nella loro transitorietà e imperfezione. Ancora oggi, leggendo le pagine in cui lo scrittore ci spiega come la carta giapponese assorba lentamente la luce (al contrario di quella occidentale che la respinge); come la trasparenza del cristallo di Koshu sia offuscata da fantasmi di nuvolaglie; come la penombra esalti le lacche e il legno, capiamo il perché di una fascinazione mai sopita. E come non convenire ancora con lui, pensando ormai a una dilagante sushi mania, quando ci ricorda che la cucina nipponica in realtà non delizia il palato, ma lusinga con le seduzioni proprie alle arti decorative.
Quasi che il Giappone, prima di affrontarlo di fisicamente, lo visitassimo con gli occhi. Così fece, del resto, Frank Lloyd Wright, anche lui collezionista di stampe ukiyo-e, che ammirò la villa imperiale di Katsura prima nel 1893, ricostruita all’Esposizione Universale di Chicago, poi nel 1905, anno della sua prima visita. Da quella semplicità naturale, da quei pavimenti in cui ci si può dormire, inginocchiare, mangiare, amare e meditare, da quel gioco di luci ed ombre, l’architetto americano trasse “un esempio perfetto per la standardizzazione moderna”. Era quasi un secolo fa, ma ancora oggi, se dobbiamo pensare a un modo per rispondere alle crescenti esigenze abitative delle aree urbane, se dobbiamo pensare al futuro insomma, è a quel modello giapponese che pensiamo. Volpi, nel suo excursus “dai miracoli del passato alle sfide del futuro”, sostiene che il Giappone è il Paese che oggi può insegnare a tutti come è possibile attuare una decrescita felice. Meno meraviglie certo, ma più qualità (il Numbeo Quality of Life Index 2016 mette il Giappone in sedicesima posizione davanti a Francia, Israele, Italia) o, per dirla con Tanizaki, meno luci abbaglianti e più ombra. Che è in questa penombra che si trova l’incanto.
Pubblicato sul mensile Dove, marzo 2016.