ARCHITETTURE ALPINE
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Bivacchi alpini: l’ultima frontiera dell’accoglienza in alta quota

È un’architettura estrema, ridotta al minimo eppure resistente a condizioni meteorologiche limite, sbalzi di temperatura radicali, neve e terreni accidentati, quella dei bivacchi di alpini. Un’architettura elementare, che riconduce alla necessità primordiale dell’essere umano di proteggersi dalla natura. «Ci sono i bivacchi storici che resistono, come la capanna Resegotti, a 3624 m. sulla Punta Parrot, a dominare l’alta Val Sesia, ma negli ultimi anni, anche per la necessaria sostituzione di alcuni ormai inagibili, sono molti gli architetti che si sono confrontati con l’existenz minimum, uno spazio minimo a misura d’Uomo, a metà tra esercizio stilistico e pratica ingegneristica in quota» dice Aldo Faleri, docente di Design Alpino alla Scuola di Design del Politecnico di Milano e curatore di mostre e incontri sul tema.

Senza fuochi, senza acqua, senza i confort a cui ci hanno abituato i classici rifugi, il bivacco è anche l’occasione per sperimentare nuovi moduli abitativi prefabbricati. Ad aprire questa via Stefano Testa e Luca Gentilcore di LEAPfactory (Living Ecological Alpine Pod) con l’ormai noto bivacco Gervasutti sul Monte Bianco, una sorta di capsula cilindrica appollaiata sulla roccia, resistente alle intemperie e costruita in poche settimane, poi replicata nell’eco hotel LeapRus sui 4000 m del Monte Elbrus, il più alto della Russia, e nella Scuola Sci e Snowboard di Courmayeur. Spesso dotati di pannelli solari, in legno o materiali sostenibili, attenti al consumo di suolo, con aria calda e prese elettriche e USB, eppur rimovibili, i bivacchi contemporanei continuano a essere l’emblema di un rapporto rispettoso e non invasivo con l’ambiente alpino. Sulle Alpi Pennine e Lepontine, i quattro nuovi bivacchi (il Beniamino Farello in Veglia, l’Antigine e il Camposecco in Antrona e l’Emiliano Lanti in Val Quarazza) hanno fatto delle Aree Protette dell’Ossola una zona amianto free simbolo dell’ultima frontiera dell’accoglienza in montagna. La loro forma pentagonale richiama il nuts, il dado usato dagli alpinisti per assicurarsi alle pareti di roccia.

Solidi geometrici puri, semplici, che nascondono tecnologie complesse. Il bivacco Fanton progettato dallo studio di architettura DEMOGO per esempio, ancorato con un traliccio in acciaio alla forcella Marmarole, a 2667 m. sulle Dolomiti bellunesi, è stato trasportato in quota con un unico volo di elicottero a settembre 2020. Leggerissimo, con guscio in materiale composito studiato ad hoc per gli ambienti alpini e interno in legno, sarà rivestito in zinco titanio la prossima estate. Ché, nella progettazione di queste scatole magiche, è indispensabile prevedere tempi di montaggio e trasporto, spesso considerando che bisogna attendere un giorno estivo con clima perfetto per montarle e che tutto deve avvenire entro la giornata. Un equilibrio delicato come quello che sembra sostenere il bivacco Luca Pasqualetti (nella foto), sistemato sulla cresta del Morion in Valpelline, di fianco allo scenografico foro della Becca Crevaye, a 3290 m di quota. Progettato, su commissione di Esprisarvadzo, da Roberto Dini e Stefano Girodo, ricercatori dell’Istituto di Architettura Montana del Politecnico di Torino, prima è stato allestito in quattro parti in un laboratorio di falegnameria, poi trasportato in elicottero, quindi assemblato in quota completamente a secco, senza l’uso di calcestruzzo, e usando materiali riciclabili. Nella parete ad est, si apre una grande finestra che immagazzina luce e calore e che regala una vista superba verso Monte Rosa e Cervino.

Giunti fin qui d’altra parte, a un passo dal cielo, queste microarchitetture, la cui origine è da rintracciarsi nel riuso di strutture belliche del secondo dopoguerra, sembrano presentarsi come luoghi meditativi. In due delle pareti di quel prisma esagonale nero opaco che è il bivacco Matteo Corradini (nella foto), o black body mountain shelter secondo la definizione dei progettisti Andrea Cassi e Michele Versaci, due grandi vetrate diventano cannocchiali per inquadrare verso nord, la Val Thuras e, verso sud, il massiccio degli Ecrins. Dentro, un rivestimento in legno di cirmolo crea un ambiente profumato in cui i letti diventano panche intorno a un tavolo. Un luogo di incontro sui 2900 m della vetta della Dormillouse in alta Valle di Susa, al confine tra Italia e Francia. Un rifugio estremo che grida alla sopravvivenza. Per il corpo e l’anima.

Pubblicato su Repubblica design di novembre 2020

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Manuela Mimosa Ravasio è una giornalista professionista con una formazione da architetto. Ha lavorato per anni come caporedattore scrivendo di società e attualità in riviste del gruppo RCS e tutt'ora firma per i maggiori quotidiani e settimanali nazionali. Oggi svolge la sua attività da libera professionista offrendo anche consulenze in comunicazione, progettazione di contenuti e strategie narrative, e formazione per la promozione di territori.

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