Non bastava il capovolgimento dell’effetto Flynn a dirci che la curva del quoziente intellettivo globale sta volgendo pericolosamente verso il basso, ora anche l’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, secondo uno studio dell’Università del Michigan che l’ha “misurata” a 14 mila studenti per una trentina d’anni, sta avendo un tracollo. Un’ascesa verso l’indifferenza, il culto di sé, il narcisismo, verificatasi soprattutto dopo gli anni Duemila, e che ha cominciato a creare qualche allarme. Perché la mancanza di capacità empatiche non ha effetti solo etici, ma anche cognitivi. Come ci hanno dimostrato le neuroscienze, dalla scoperta dei neuroni specchio in poi, è grazie all’empatia che noi possiamo costruire relazioni sociali efficaci, prendere le decisioni giuste, fare previsioni sulla nostra vita e stabilire obiettivi, capire ciò che accade intorno a noi. Cosa ci sta succedendo dunque? «L’essere umano è biologicamente programmato per essere empatico, ma per diventare capaci di gestire e capire le emozioni nostre e quindi degli altri, il sistema nervoso deve maturare in un ambiente “sufficientemente sicuro”. La nostra società, nonostante garantisca condizioni di vita migliori rispetto a quelle di trenta anni fa, offre spesso meno sostegno sociale, uno scarso senso di appartenenza alla comunità, mentre le famiglie sono sempre più monadi isolate. In questo vuoto quasi affettivo, le competenze emotive e relazionali si attenuano» dice Erica Francesca Poli, psichiatra e psicoterapeuta da poco in libreria con Le emozioni che curano (Mondadori). Ma c’è anche chi dà la colpa alla diffusione dei social media, al multitasking, al contesto sempre più competitivo che porterebbe a concentrarsi su se stessi trascurando il prossimo. Sta di fatto che, a un certo punto, il dubbio di essere quasi anestetizzati, incapaci di capire e capirsi, viene, e dopo anni di inni alla razionalità, si riscopre il valore, anche terapeutico, delle emozioni.
La rivoluzione dell’affetto
«Molti mi contattano quando diventano genitori e si accorgono dell’impaccio emotivo che hanno con i figli», continua Poli. «Fortunatamente, in campo emotivo, la riparazione è sempre possibile, ed esercitando lo sguardo su di sé e sulla propria esperienza interiore, si riescono a rivivere emozioni represse e trasformarle. Il problema infatti sta proprio nella difesa che abbiamo messo in atto verso di esse: quando invece riusciamo ad aprire i portali delle nostre emozioni, acquisiamo gradi di sensitività e la relazione con gli altri migliora». A sentire gli esperti però, a volte basterebbe leggere delle storie. I classici romanzi di formazione con cui molti di noi sono cresciuti. «Leggere è già di per sé un atto di immedesimazione» dice Rachele Bindi, psicologa e libroterapeuta, «Quando ci perdiamo tra le pagine di un libro, esercitiamo la nostra abilità di leggere il comportamento altrui. Se poi quel libro è una sorta di fiaba per adulti come Un bene al mondo di Andrea Bajani (Einaudi), risvegliamo il grande potere dell’immaginazione che avevamo da bambini. Ma anche affrontare un romanzo come La Felicità di Emma di Claudia Schreiber (Keller Editore), che racconta di una donna che accudisce amorevolmente i maiali mentre è quasi incapace di prendersi cura degli esseri umani, costringe a un lavoro su di sé e su come ci si rapporta agli altri».
Raccontami di te
E quando neppure le parole bastano, ci viene in aiuto la tecnologia, la stessa che demonizziamo, trasportandoci laddove dati e numeri non potrebbero farci arrivare. All’ultima Biennale del Cinema di Venezia, per esempio, indossando un particolare visore per la mixed reality e camminando attorno a un grande cubo bianco, si potevano ascoltare, capire, quasi toccare, le storie di chi, sfrattato, era rimasto senza casa anella cittadina americana di Milwaukee. Scrive Gabo Arora, che già con degli Oculus Rift ci aveva immerso virtualmente nel campo profughi di Zaatari in Giordania in mezzo a cento mila rifugiati siriani scappati dalla guerra, che documentari interattivi come These Sleepless Nights, sono fatti per riuscire a stabilire una connessione più profonda tra gli esseri umani e promuovere una comprensione maggiore di ciò che accade. E in effetti, sentire il respiro di qualcuno mentre ti racconta che dopo aver perso la casa, ha dovuto affidare i propri figli a un’altra famiglia, è diverso che leggere un resoconto puntuale, ma asettico, del fenomeno dei senzatetto. Perché non c’è comprensione senza coinvolgimento. Non c’è consapevolezza senza emozione. E, sia chiaro, non c’è nemmeno “buonismo”.
Intelligenza sì, ma emotiva
Non è solo desiderio di umanità infatti tutto questo interesse verso l’empatia. Sviluppare capacità empatiche consente infatti di acquisire strategie utili per gestire conflitti e stress, prendere decisioni opportune, comunicare in modo efficace. Tutte cose sorprendentemente richieste nel mondo del lavoro. «Se guardiamo al futuro, molti aspetti tecnici potranno essere delegati a sistemi artificiali, ma la capacità di proiettarsi nella mente altrui, quella è tipicamente umana» dice Paolo Legrenzi, professore emerito di psicologia all’Università Ca’ Foscari. Insieme a Rino Rumiati, esperto in psicologia cognitiva, terrà il primo corso sull’empatia (a Milano a novembre) destinato a professionisti, da medici a manager, bisognosi di affinare le loro abilità relazionali. «Oggi un medico non può non tener conto del rapporto che ha con il paziente, prendendosi cura, oltre a che della malattia, anche delle sue paure o speranze: è il caso della medicina narrativa o delle medical humanities. Nello stesso modo, un avvocato o un operatore finanziario, non possono occuparsi solo del caso specifico, ma devono esser in grado di connettersi con i bisogni più profondi del cliente. Sono sensibilità che si possono imparare, anche con esercizi specifici di strategia, molto simili al gioco degli scacchi, che in effetti consiste nel fare previsioni sulle mosse di chi si ha fronte». E se si può imparare, perché non farlo subito?
L’alfabeto delle emozioni
Alla scuola di Ludovico per esempio, un’elementare montessoriana milanese, quando si arriva ci si saluta con una stretta di mano e dicendosi “ciao” guardandosi negli occhi. E non si scappa al suono della campanella, ma, ancora, ci si ferma per un saluto. Non è molto ma, come direbbe Mary Gordon, l’educatrice canadese che ha creato dei programmi speciali per l’insegnamento nelle scuole dell’empatia per bambini da uno a 14 anni, l’alfabetizzazione emotiva va insegnata a partire dai primi anni di vita. Insegnata giocando, preparando torte, sperimentando il valore dell’inclusione e il dolore dell’esclusione. Il suo programma, The Roots of Empathy, ormai diffuso in Canada, Stati Uniti, Irlanda, Inghilterra, Germania o Svizzera, non aiuta solo a rendere bambini e bambine più consapevoli delle proprie emozioni, più solidali, meno portati a mettere in atto o subire comportamenti aggressivi, ma potenzia anche la loro capacità di apprendimento. Secondo le ricerche dell’americana Collaborative for Academic, Social and Emotional Learning, i bambini che hanno “coltivato l’empatia” raggiungono infatti nel tempo migliori prestazioni accademiche e hanno più probabilità di laurearsi. D’altra parte, uno dei migliori sistemi scolastici al mondo, quello danese, prevede da anni un’ora di empatia alla settimana, la Klassens tid o Class Time, obbligatoria dai 6 ai 16 anni. Il tutto per diventare esseri umani più efficienti, più felice e capaci, ma soprattutto più umani (nella foto di apertura l’opera della serie Empathy dell’artista coreano Kyuin Shim).
Questo articolo è stato pubblicato su Elle a settembre 2019